Con l’approssimarsi della prima guerra mondiale, Patrizi assunse posizioni favorevoli alla neutralità italiana e al tentativo del governo di trovare una soluzione diplomatica alla disputa internazionale. Poi, a intervento deciso, Patriziritenne ormai necessario mettere a tacere ogni ulteriore dissenso per sostenere lo sforzo bellico del Paese.
La sua cautela scontentò gli interventisti, che lo accusarono di ambiguità e opportunismo; sull’altro fronte, i socialisti lo criticarono per non aver più apertamente osteggiato l’entrata nel conflitto.
Durante la Grande Guerra, quindi, Patrizi si trovò costantemente preso fra due fuochi. Più spietato quello dei sostenitori della guerra. Gli imputarono di essere “tutto preso dalle minute quisquiglie dei corridoi parlamentari”, di incarnare una pratica politica ancora di stampo giolittiano, opportunistica, priva di idealità, di rifuggire continuamente “dalle manifestazioni di italianità”; giunsero al punto di sospettare che fosse ispiratore di “un centro di infezione tedesca”.
Per quanto non rinnegasse affatto le precedenti convinzioni neutraliste, il deputato radicale aveva ormai accettato la guerra come un fatto compiuto e auspicava la vittoria contro “il secolare nemico che – affermò – ci odia con la ferocia della sua razza barbara”. In una lettera al “Giornale d’Italia”, dichiarò che, pur sottomettendosi ai “gravosi doveri della disciplina”, avrebbe mantenuto quella libertà di giudizio che, proprio per il suo ruolo di parlamentare, gli si imponeva
La tensione politica raggiunse l’acme tra il settembre e l’ottobre del 1917. Il 1° settembre “La Rivendicazione” pubblicò una lettera di Patrizi che ne puntualizzava schiettamente il pensiero. La lettera provocò reazioni indignate. I repubblicani presero le distanze dal suo atteggiamento “ultra neutralista”. L’“Unione liberale” lo definì “tedescofilo accanito”. il giornale riferì anche la feroce critica di Leopoldo Franchetti alla “malvagia e tortuosa opera disfattista” del deputato.
Patrizi si trovò del tutto isolato. Presero ulteriormente le distanze da lui pure i socialisti, contestandogli di aver criticato la guerra solo in privato, mentre avrebbe dovuto avere il coraggio di condannarla in Parlamento. Infine, il 22 ottobre, la direzione nazionale radicale lo espulse per aver professato idee “in fondamentale contrasto con i principi e le direttive” del partito.
Quando, nel 1919, conclusa vittoriosamente la guerra, il popolo italiano fu chiamato a rinnovare il Parlamento, Ugo Patrizi annunciò di non ripresentarsi; confermò orgogliosamente di essere rimasto fedele, “tetragono fino al martirio” ai propri convincimenti e di attendere fiducioso il giudizio della storia.
Patrizi si trasferì a Roma, rimanendo del tutto estraneo dalle turbolente vicende politiche e sociali che segnarono Città di Castello nei primi anni ’20. Tra i protagonisti di quelle vicende vi fu suo figlio Gino, figura di spicco dello squadrismo fascista tifernate.
Ugo Patrizi morì a Roma il 13 febbraio 1936. Il periodico “L’Alta Valle del Tevere” ricordò la sua “proverbiale bontà d’animo e la cortesia squisita dei modi con cui trattava indistintamente tutti”. Patrizi è sepolto nella cappella gentilizia del cimitero tifernate.