I fuggiaschi imboccarono la via di Bocca Trabaria e, pur tra tante difficoltà, si aprirono la strada verso San Marino, che il 31 luglio concesse asilo ai superstiti della grande ritirata.
A Citerna si erano uniti a Garibaldi, sebbene egli avesse con franchezza esposto i rischi ai quali andavano incontro, i tifernati Luigi Gabriotti, Annibale Donini, Vincenzo Lupatelli e Vincenzo Giorgi, che aveva disertato le armi pontificie. Gabriotti non ce la fece a raggiungere San Marino: gli austriaci – che lui ebbe a definire “il prepotente Usurpatore della miglior parte d’Italia” – lo catturarono, lo condussero a Bologna e lo condannarono alla pena di trenta colpi di bastone. Si tramanda che “al venticinquesimo colpo i carnefici dovettero cessare l’orrenda esecuzione perché quel corpo estenuato dalle fatiche e affranto non avrebbe più oltre potuto resistere”.
Garibaldi e un migliaio di uomini che vollero ancora seguirlo ripartirono subito da San Marino. Giunti a Cesenatico, si impossessarono di alcuni pescherecci e risalirono la costa. Al largo di Comacchio, tre navi austriache intercettarono la flottiglia, la inseguirono e la cannoneggiarono, fino a che gli equipaggi di otto barche furono costretti ad arrendersi. A bordo di essi si trovavano anche Donini e Lupatelli, condotti prigionieri a Pola.
Garibaldi e i residui superstiti si rifugiarono nelle valli di Comacchio. Gli austriaci fucilarono spietatamente gran parte di coloro che cadevano nelle loro mani. Fecero questa fine anche padre Ugo Bassi e il noto patriota romano “Ciceruacchio”, che a Monterchi aveva riabbracciato don Alberti, conosciuto a una battuta di caccia.
I disagi della marcia furono fatali ad Anita Garibaldi, malata e al sesto mese di gravidanza. Morì il 4 agosto. Garibaldi continuò la sua avventurosa fuga attraverso la Romagna, la Toscana, la Maremma, l’isola d’Elba e finalmente la Liguria, dove le autorità del regno di Sardegna gli rifiutarono l’esilio e l’espulsero. Riparò quindi sulle coste dell’Africa settentrionale e poi partì per l’America.
Un altro tifernate morì per mano degli austriaci all’epoca del passaggio di Garibaldi per la valle. Si chiamava Cipriano Angeloni ed era detto “Berlicche”. In fuga anch’egli da Roma, fu catturato presso Città di Castello mentre – e qui i racconti divergono – o tentava di mettersi in contatto con il figlio, o portava informazioni a Garibaldi. Certo è che lo imprigionarono e malmenarono prima sotto le logge del palazzo governativo, poi nel convento di San Domenico. Quando poi lo tradussero al convento di San Francesco di Fratta, con le vesti lacere, legato a un carro e procedendo a scatti per costringerlo a correre, “Berlicche” non volle subire ancora: appena ebbe le mani libere afferrò un’arma e si scagliò contro gli austriaci, ammazzandone e ferendone alcuni. Lo fucilarono immediatamente. Sul luogo dell’esecuzione il Comune umbertidese avrebbe posto una lapide con l’epigrafe: “Nel giorno XXX luglio / MDCCCXXXXIX / qui cadeva vittima del furore tedesco / Cipriano Angioloni / eterna infamia agli oppressori”.
Per quanto il convulso passaggio di tanti uomini armati in lotta per la vita offrì il destro a qualche episodio di saccheggio e alimentò l’astio dei conservatori, fu opinione largamente diffusa che i garibaldini “si comportarono meglio di un esercito regolare”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).