La tragedia di Pieve Santo Stefano iniziò all’inizio di agosto 1944. I militari germanici avviatono la deportazione coatta degli abitanti il 5 di quel mese, trasportandoli oltre la Linea Gotica con convogli notturni per sfuggire ai bombardamenti alleati. Poi toccò alla popolazione rurale. Raccontò Vinicio Fabbri: “Le famiglie furono smembrate e disperse e obbligate a lasciare tutti i loro averi. La soldataglia si fece padrona di tutte le case, ne forzò i nascondigli, distrusse o sfregiò quello che non poté asportare. Una intera colonna di autocarri fu addetta a svuotare le case. […] Né l’Ospedale, né il Ricovero per i vecchi furono rispettati: fatti sfollare, vennero adibiti rispettivamente a stazione radio e a deposito di munizioni”. Di pari passo con il saccheggio, iniziò la sistematica distruzione del paese, per lasciare solo ruderi al nemico in arrivo. Un’opera distruttiva portata avanti per giorni. Poi, il 31 agosto – scrisse don Armando Aputini –, prima di evacuare il paese i tedeschi fecero saltare tutti i ponti sulla strada nazionale Tiberina 3Bis e posero delle mine nel palazzo comunale e nella torre campanaria. Sarebbero esplose l’8 settembre.
Gli stessi fotografi militari al seguito della 10a divisione indiana rimasero stupiti nell’osservare lo scempio compiuto a Pieve Santo Stefano dai guastatori germanici: “Sembra impossibile trovare una spiegazione plausibile per questa distruzione intenzionale, a meno che i tedeschi non abbiano inteso privare di un ricovero i pochissimi soldati britannici che avrebbero alloggiato nel paese come truppe di supporto”. Le autorità municipali avrebbero quantificato, su un totale di 324 fabbricati esistenti nel capoluogo prima del passaggio del fronte, in 272 le case di abitazione completamente distrutte e in 29 le gravemente danneggiate; in 4 gli stabilimenti industriali o magazzini completamente distrutti e in 7 i gravemente danneggiati. Nelle frazioni e nel resto del territorio comunale assommarono a 96 le case di abitazione civile o coloniche completamente distrutte e a 109 le gravemente danneggiate, su un totale di 450. Quanto alle infrastrutture, 39 i ponti fatti saltare in aria, di cui 11 sulla strada statale Tiberina 3Bis.
Al disastro a livello edilizio e urbanistico si aggiungeva la distruzione della produzione agricola e la depauperazione del patrimonio zootecnico. Si calcolò che a causa della guerra fosse andato perduto l’80% del raccolto di grano, il 95% di patate, il 98% di granturco; e che per le requisizioni e razzie tedesche mancasse il 78% del bestiame bovino, l’85% dell’ovino, il 97% del suino e il 95% dell’equino.
La testimonianza di Vinicio Fabbri rivela la drammaticità della situazione a Pieve Santo Stefano poco dopo la Liberazione, quando l’inverno era ormai alle porte: “Nessun aiuto è stato elargito ai contadini; ammassati nelle poche case rimaste in condizioni di abitabilità, si azzardano – senza possedere più un solo capo di bestiame – nei campi insidiati dalle mine. Gli altri, che vivono in stalle e in cantine diroccate, rimuovono le macerie nella speranza di trovare un cencio con cui coprirsi. Oggi, in questo paese, siamo tutti miserabili! È un signore chi possiede un tavolo o una materassa! Siamo veramente vittime della guerra: non abbiamo più indumenti, né bestiame, né tetto […]. Nessuna forma di soccorso è in atto a nostro favore”.
Nel maggio 1945, quando il resto della popolazione cominciò a tornare dalle aree di deportazione, il sindaco di Pieve Santo Stefano avrebbe lanciato un’accorata richiesta di aiuto, definendo la situazione del paese “uguale solamente a quella di Cassino”; e ciò, affermò, “per riconoscimento non solo delle Autorità Militari Alleate, ma anche dei Governi Inglese e Americano che ne hanno fatto esplicita menzione con loro organi sia attraverso la radio che attraverso la stampa”. Sembrava distrutta ogni possibilità di vita: “Tutti i beni asportati, le case distrutte, la impossibilità di fare i lavori agricoli per mancanza di bestiame e per le mine disseminate dovunque”. E mentre i pievani si accampavano alla bell’e meglio tra le rovine delle loro case, alle emergenze della ricostruzione delle abitazioni e del ripristino delle comunicazioni si aggiungeva quella del vestiario, dal momento che la gente aveva solo “i pochi stracci” che portava addosso.
Le testimonianze dei pievani che, al ritorno dalla deportazione, si trovarono di fronte solo macerie, sono toccanti: “Entriamo in Pieve Santo Stefano che ci si presenta in una visione lugubre e spettrale. È tutta un cumulo di macerie” (Michele Pilotti); “Non c’era niente, luce, negozi, scuole e botteghe. Solo la Collegiata l’avevano lasciata in piedi. Una desolazione, barche di macerie, fili della luce e travi cadute per tutti i versi, muraglie pericolanti, vie e cantoni non esistevano, perché intasati dal materiale: non credo di essere capace di descrivere il tritio” (Omero Gennaioli); “Quando si fu davanti alla nostra casa – dov’era, perché non c’era più – la mi sorella si mise a piangere” (Adele Cangi); “Dietro sentii la voce di un vecchietto che mi toccò la spalla e io mi vergognai, svelto ad asciugarmi gli occhi. ‘Piangi, piangi pure. Io gli occhi li ho belle asciutti, che ho benne finito le lacrime’” (Onelio Pisani); “La gioia del mio babbo che ritrovò la sua bicicletta. ‘Questa bicicletta – disse – questo è l’unico mezzo. Meno male che abbiamo questa bicicletta perché io con questa posso andare a cercare un po’ da mangiare’ C’era tanto nelle campagne…” (Grazia Cappelletti).
Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.