L’aggressività dei socialisti indusse Franchetti ad organizzarsi più efficacemente. Unì i sostenitori nel Comitato Liberale-Monarchico e fondò il settimanale “L’Alto Tevere”, che dal 1903, per 6 anni, fronteggiò l’offensiva degli oppositori
I liberali-monarchici di Città di Castello, nel prendere le difese di Franchetti, ne esaltarono “l’integrità, l’operosità, l’intelligenza,” e si vantarono dell’“universale estimazione e rispetto” di cui egli godeva in Parlamento, anche tra “gli oppositori più ardenti dell’Estrema”. Quanto alle ironie sulla sua generosità, replicarono stizziti: “All’on. Franchetti bastino le benedizioni dei beneficati – l’unica, la vera ricompensa che Egli brama – che mai invano a Lui ricorsero”.
Scese poi in campo lo stesso barone, con una lettera aperta nella quale riferiva della sua attività politica e puntigliosamente rispondeva alle accuse mossegli. Esordì: “Tre obbiettivi sopra tutto sono stati sempre presenti alla mia mente e all’animo mio, e cioè: il miglioramento delle condizioni delle classi meno agiate, specialmente agricole, la guerra all’affarismo, sotto tutte le sue forme, e la difesa dei legittimi interessi della nostra regione”. Franchetti rammentò con orgoglio i suoi viaggi di studio e le sue pubblicazioni sul Meridione e l’opera prestata nella Colonia Eritrea (“l’opera di cui mi compiaccio maggiormente”). Quanto al miglioramento delle condizioni dei contadini altotiberini, scrisse: “Sono lieto di rammentare che la riforma della nostra àpoca colonica, da me iniziata, ha incontrato il consenso dei miei amici con manifesto vantaggio della classe agricola nella nostra valle”. Aggiunse di aver condotto una “lotta energica e fortunata contro la pellagra” fra i suoi coloni e di aver adempiuto con coscienza al “dovere di elevare moralmente ed intellettualmente i contadini con l’istruzione e l’educazione”.
Franchetti passò poi in rassegna le principali battaglie condotte in Parlamento e, soprattutto, smentì di non essersi mosso a sostegno degli interessi del suo collegio altotiberino. Infine, invitò a guardare in alto, a non lasciarsi irretire in sterili contrapposizioni: “Ma in una cosa specialmente io so di essere interprete fedele dei vostri sentimenti: ed è, in ogni questione, di aver sempre lo sguardo fisso in alto, verso quegli ideali di patria, di libertà, di rettitudine, di buona fede, ai quali la nostra Italia deve la sua esistenza e dovrà la sua grandezza e la sua prosperità avvenire. […] Operi pure liberamente, sotto la protezione della libertà comune per tutti, ogni interesse, ogni classe sociale, per guadagnarsi il suo posto al sole. Ma la storia delle lunghe sventure del nostro paese c’insegni che per fecondare coteste lotte, coteste gare, è indispensabile la fede nella indipendenza e nella libertà d’Italia”.
Estratto, senza note, del saggio Le vicende politiche di Leopoldo Franchetti a Città di Castello, di Alvaro Tacchini, in Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, a cura di A. Tacchini e P. Pezzino, Petruzzi Editore, 2002.