Una modesta bottega di falegname, una “boteghìna”, non era dotata che di banco di lavoro con morsa, tre o quattro seghe a mano di diversa grandezza, martelli, tenaglie, raspe, lime, pialle e piallicci per i vari usi; inoltre, per chi sapeva intagliare, qualche scalpello (“scarpèli”), “sgurbie” o “sgòrbie” e “stracantóni”. Tutti attrezzi per la lavorazione a mano. I pochi falegnami che tenevano un tornio, spesso costruito con le proprie mani, lo avevano a pedale1. Realizzavano da sé anche altri attrezzi; alcuni “ferri”, invece, li facevano fare, magari su loro disegno, a un fabbro.
Poi ci voleva un carretto per andare a “smacchinare” da Agnellotti o da Cristini tavole e tavoloni acquistati nelle segherie o direttamente in campagna, dai proprietari dei boschi. Oltre a tagliare le tavole, capitava di dovervi fare lavori più sofisticati, impossibili senza ricorrere alle loro macchine elettriche, come ad esempio la toupie (“tupìa”) per eseguire le cornici dei mobili. La diffusione del macchinario elettrico sarebbe avvenuta, come per le piccole officine dei fabbri, dopo la seconda guerra mondiale. Solo allora cominciarono a diffondersi le seghe a nastro, i torni elettrici e le “tupìe”. Gli attrezzi metallici, specie la sega a mano, abbisognavano di attenta manutenzione; così, affinché funzionassero meglio, venivano unti con il grasso del “bilìco” dei maiali, una specie di budello appeso al muro e conservato non salato.
La bravura di un falegname, dal momento che si evitavano i chiodi nei manufatti più raffinati, dipendeva in modo rilevante dalla perfezione degli incastri. La colla, un tempo, la preparava da sé. Era una “colla di pesce”, resistentissima. La si applicava calda sul legno, stringendo con i “sergenti” le due superfici incollate. Poi c’era la colla “a caldo”, tedesca, detta “quadróna”: la si metteva a bagno, talvolta per una nottata, quindi la si scaldava senza farla bollire, infine la si applicava.
Per lucidare i mobili più raffinati, come i canterani, si usava la “gomma lacca”, sciolta nell’alcool (“àlcole”). Ci si imbeveva uno straccio di lana o della bambagie e si provvedeva a strofinare, ripetendo con la mano innumerevoli movimenti “a otto”, finché il mobile non diventava “lustro”. Contestualmente si aggiungeva anche un pizzico di pomice, che “induriva” il liquido e contribuiva a otturare eventuali fori nel legno.
Dopo la “gomma lacca” si dava la cera, sia sui mobili di casa, sia su tavoli, casse e cassoni. Era la cera d’api, che i falegnami preparavano sapientemente, sciogliendola con acqua ragia o trementina. Ognuno aveva il suo metodo. Alcuni aggiungevano un po’ di pece greca, perché non si appiccicasse. Quindi la davano a caldo sui mobili, lucidandoli con uno straccio.
Venivano usati anche degli oli. Per gli infissi andava bene l’olio di lino cotto, che impregnava e garantiva impermeabilità al legno. Innanzitutto si puliva l’infisso con la carta vetrata, poi si stendeva una superficie molto sottile di olio cotto. Ai mobili, invece, si dava l’olio crudo di lino o l’olio paglierino. Quindi si “pomiciava”, cioè vi si passava sopra con carta vetrata o molto sottile o consumata; infine, dopo aver lasciato asciugare, si poteva lucidare con “gomma lacca” e alcool.