Jacopo Granci. Dall’Alta Valle del Tevere al Maghreb.

Quando parla dei paesi dell’Africa mediterranea, Jacopo Granci riesce a comunicare sia la simpatia che nutre per quei popoli, sia l’autorevolezza che possiede solo chi li conosce a fondo. È difficile trovare un giovane non ancora trentenne più “mediterraneo” di lui.
Era giovanissimo e lo affascinavano i racconti dei viaggi. Gli piaceva leggere Tiziano Terzani e Ryszard Kapuscinski: “Il viaggio è una dimensione presente nella mia vita sin dall’adolescenza. Già allora mi spaventava l’idea di dover restare fermo a Città di Castello, senza conoscere altre realtà”.
A viaggiare, Jacopo ha cominciato presto, come calciatore. A 15 anni giocava nelle giovanili del Milan; poi è passato al settore giovanile del Treviso. Intanto si poneva interrogativi sul futuro: “Avevo iniziato l’Università, studiavo storia a Venezia. Mi rendevo conto che il mio interesse per lo studio, per la ricerca e per i viaggi non era compatibile con gli impegni da calciatore. Mi piaceva il calcio, ma non mi reputavo quel gran fenomeno. Avrei dovuto fare tanta gavetta e trovarmi a 30 anni e passa con una vita da reimpostare del tutto. Questo mi spaventava da morire”.
Di qui la scelta di privilegiare lo studio. Tuttavia un po’ di calcio ha continuato a farlo tornando nella valle, giocando col Castello, con l’Umbertide e con altre squadre locali. Un’attività calcistica che gli ha permesso di mettere da parte dei risparmi, poi tornati parecchio utili per la sua vita di studi e di viaggi.
Jacopo ha preso la laurea triennale in storia a Perugia nel 2005. Poi, nel 2007, la specialistica in relazioni internazionali, con laurea in Storia del Mediterraneo e una tesi sui movimenti islamici in Marocco. Scelte di studio che contestualizza anche nel clima di quegli anni: “Mi colpiva il fatto che, qui nel Mediterraneo, abbiamo davanti un mondo così vicino, ma che conosciamo troppo poco. Era l’epoca dello scontro di civiltà, dopo il 2001, della demonizzazione dell’islam, di assurde generalizzazioni, di una strategia politica ed economica del mondo occidentale che mirava, per i suoi interessi, a criminalizzare una realtà socio-culturale vasta e variegata a causa di alcune interpretazioni religiose radicali, peraltro minoritarie”.
Dopo un primo soggiorno di due mesi in Marocco, all’università di Marrakesh, per preparare la tesi, si apre per Jacopo la prospettiva di calarsi nella realtà algerina. All’inizio del 2008 vince infatti un concorso per uno stage di 4 mesi presso l’ambasciata italiana di Algeri: “Un’esperienza che agognavo, nel paese magrebino più stimolante. Curavo la rassegna stampa francofona e facevo analisi di mercato. Quello stage mi ha permesso di conoscere bene l’ambiente locale. La realtà algerina è quanto di più impenetrabile ci sia, anche nei rapporti tra gli stessi algerini. Proprio perché impenetrabile, è affascinante”.
L’Algeria è diventata tristemente nota per le stragi degli anni ’90. Vivendo là, Jacopo ha potuto vedere la realtà dal di dentro. Ha pure preso contatti con l’associazione “S.O.S. disparus”, che ha censito più di 20 mila vittime, scomparse, del terrorismo e di rese di conti in un paese in cui il regime, dopo la morte di Houari Boumedienne nel 1988, si stava sfaldando tra le spinte verso l’apertura politica e il pugno di ferro dei generali. È così che prende corpo la passione di Jacopo per l’indagine socio-politica e per il giornalismo: “L’ambasciata mi ha dato la possibilità di fare diverse interviste a oppositori del regime e a esponenti sindacali. Era un’attività rischiosa, ma l’ambasciata garantiva per me; talvolta, però, doveva farmi scortare”.
Dopo Algeri Jacopo riesce a entrare nel Master in mediazione inter-mediterranea, un affascinante progetto di studi itinerante scandito da soggiorni di tre mesi a Barcellona, tre a Venezia e tre a Montpellier, con stage finale all’università di Casablanca in Marocco. È questa l’esperienza che ha portato a compimento la maturazione “mediterranea” di Jacopo. Con risvolti non solo di studio: “Nell’estate del 2009, mentre effettuavo a Casablanca lo stage di fine master, ho deciso di ampliarlo a un anno e di dedicarmi all’attività giornalistica in Marocco, soprattutto come blogger. Ormai possedevo gli strumenti culturali per penetrare in profondità in quel mondo e per raccontarlo. Anche perché la comunità marocchina è la più grande tra quelle straniere in Italia, ma non se ne conoscono l’origine, la cultura, le radici”.
Insieme a dei giornalisti marocchini indipendenti e a qualche corrispondente straniero Jacopo ha portato avanti indagini coraggiose. Alcuni suoi reportage li ha inviati anche a “L’Altrapagina” e alcuni suoi articoli sono stati raccolti nel bel volume I dannati del carbone. Viaggio in un Maghreb sconosciuto (2010).
Successivamente, gli è stata offerta l’opportunità di un dottorato biennale sul movimento berbero marocchino, nell’ambito di un programma europeo di scambi con il Maghreb (Borsa Averroes). Mentre lavora a tale studio, il giovane tifernate continua la sua attività giornalistica: “Prima ero a Casablanca; da due anni e mezzo sono a Rabat. Il mio rapporto con la popolazione locale è stupendo. Nel mio quartiere, che può essere definito medio-popolare, faccio parte della famiglia, tutti mi conoscono e hanno voglia di fare due chiacchiere per strada a fine giornata; una convivialità talvolta addirittura stancante, ma che ti fa sentire parte della comunità. Non è una cosa scontata: per i marocchini, se si esce dal circuito turistico, è naturale offrire ospitalità, ma tanti stranieri non cercano un incontro così intenso e se ne stanno rinchiusi nelle micro-comunità di expatriés che si formano a Rabat o a Casablanca”.
Le amicizie di Jacopo sono quasi esclusivamente locali: “Sono molto integrato nella comunità giovanile, anche se si tratta di amicizie in qualche modo legate alla mia attività: giornalisti, attivisti politici, persone impegnate nel panorama culturale e sociale”.
E il contesto religioso? “La religione islamica è parte integrante del vissuto quotidiano, specie tra gli strati popolari. Lo si percepisce anche dal continuo pronunciare parole come ‘inshallah’ (‘se Dio vuole’) e ‘amdulillah’ (‘grazie a Dio’). Ma l’approccio è estremamente tollerante, tanto che, per tranquillizzarti, ripetono spesso ‘io rispetto i cristiani e le genti del Libro’. Reagiscono invece con sconcerto, con incredulità, se uno gli confessa di essere ateo…”
Dal punto di vista linguistico, Jacopo ha studiato inizialmente l’arabo classico, per decidere poi di concentrarsi sulla Darija, la variante marocchina dell’arabo: “Ora sono autonomo nella vita di tutti i giorni. E ho cominciato a studiare il berbero, perché mi sto occupando di loro”.
Qualche difficoltà, invece, esiste sul piano politico: “La mia attività di inchiesta giornalistica è appena tollerata e mi controllano di continuo. Il 20 febbraio 2011, data di nascita del movimento di protesta in Marocco, ho subito un arresto preventivo e sono stato minacciato di espulsione. Tutto è rientrato, ma da allora percepisco il controllo continuo delle autorità, per ogni spostamento, per ogni partecipazione a iniziative per loro sospette. Una pressione che da un lato lascia addosso una sensazione di malessere, dall’altro rivela quanto sia utile scrivere e far conoscere ciò che accade”.
Jacopo ha dunque vissuto in pieno la primavera marocchina del 2011: “Per me che ero là, ha rappresentato un momento esaltante, di grande soddisfazione, sia perché conoscevo i loro problemi, sia perché potevo raccontare da vicino quanto avveniva”.
Da allora ha cominciato a collaborare con il sito Osservatorio Iraq Medio Oriente e Nord Africa e adesso fa parte delle cooperativa giornalistica “Memoriente”, che lo ha appena rilevato. Non che la sua intensa attività di indagine e di comunicazione si fermi qui. Infatti ha pure un suo blog – (r)umori dal mediterraneo – avviato mentre era riuscito a ricavare, tra le pieghe del master, alcune esperienze a Tunisi, prima e dopo la caduta del dittatore Ben Ali.
Quando gli chiedo delle sue radici tifernati e altotiberine, Jacopo ci pensa su:
“Non sento radici solide con la mia terra, al di là dei legami affettivi con una famiglia che mi ha dato grandi stimoli, che ha saputo educare la mia curiosità. In qualche modo, però, l’idea di Città di Castello come un porto, un attracco sicuro, ce l’ho da quando l’ho lasciata a 15 anni. Subito dopo il distacco mi ritrovavo a disegnare scorci della mia città, sui quaderni, sui libri di scuola. Ma la fase che vivo è ancora quella della curiosità per il nuovo, per l’altro. Una fase in cui si dà per scontato quello che si ha, quello che è già tuo. Arriverà il momento in cui riscoprirò il valore di questo mio ‘rifugio’. Ora come ora, quando sono in Marocco, cerco di scrollarmi di dosso l’eccessivo ricorso all’identità, il fatto che sono italiano, che sono tifernate; lo sentirei come un impiccio, potrebbe rendere difficile la mia integrazione”.
In effetti è comprensibile che senta labili le proprie radici un giovane i cui ricordi della città d’origine sono quelli di un adolescente, partito appena quindicenne e da diversi anni continuamente in viaggio in gran parte del Mediterraneo.

L’intervista è stata pubblicata nel numero di aprile 2013 de “L’altrapagina”.