Prima dello scoppio della guerra, l’esercito austro-ungarico ebbe modo di individuare e fortificare i punti strategici che avrebbero dovuto reggere l’urto offensivo degli italiani. Naturalmente privilegiarono posizioni in altura, più difficilmente accessibili e dalle quali potevano bersagliare gli attaccanti con ogni tipo di arma. Lo sottolineò Gabriotti: “[…] noi possedevamo le pendici ed i nostri vicini le vette a perenne nostra minaccia. Non è l’estensione che ha valore in una conquista simile ma l’elevazione”. Avanzare verso l’Isonzo e respingere il nemico dalle sue prime difese costò dunque gravissime perdite.
A seconda della distanza da quelle avversario, le trincee erano classificate come avanzate, di prima linea o di resistenza. Lucio Fabi così descrive una trincea tipo di prima linea: “Era uno scavo profondo circa un metro e mezzo, largo poco meno, sostenuto quando occorreva da graticci di legno, con un andamento a zig-zag determinato dalle cosiddette camere di scoppio (rientranze che limitavano gli effetti dei proiettili avversari), rialzato con un altro mezzo metro di pietre o sacchetti di terra che trattenevano le pallottole vaganti. Su questo spalto, alla distanza di meno di un metro l’una dall’altra, si aprivano le feritoie per i fucilieri. All’interno, una zoccolo di pietre e di legno costituiva il piano rialzato per l’appoggio dei tiratori e contemporaneamente il sostegno per l’assito sotto il quale scorrevano acqua e liquami. La trincea era coperta dalla vista dell’avversario […] da frasche, ramaglie o lamiere ondulate”.
Le armi in trincea
I soldati italiani avevano in dotazione fucili modello 1891 a ripetizione manuale, con caricatori da 6 cartucce, una in più rispetto a quelli austro-ungarici. Dettero prova di affidabilità anche in condizioni atmosferiche avverse. Su di essi si innestava una baionetta. In trincea venivano inoltre posizionate le mitragliatrici. Quest’arma diventò uno dei simboli della micidiale capacità di uccidere delle nuove tecnologie militari. Alle “St. Etienne” e “Hotchkiss” francesi e alla “Maxim Vickers” inglese si aggiunse l’italiana ed efficiente FIAT Revelli 1914: eseguiva sia il tiro a raffica, sia intermittente, con caricatori da 50 colpi.
La staticità della guerra di trincea favorì l’uso di una variegata gamma di bombe a mano, in grado di sprigionare una elevata forza distruttrice nel breve spazio. L’estrema vicinanza tra gli opposti schieramenti poteva renderla letale. Raccontò Gabriotti: “Sulle ore 9 ieri sera vi fu uno scambio di bombe col nemico, la cui trincea dista da quella nostra appena trenta metri, e per questo la fucileria non può aver luogo. Una di esse cadde in pieno nella trincea occupata dalla 12ª squadra, colpendone alcuni soldati, fra i quali l’Erasmi”. Per proteggere la trincea dall’attacco nemico si collocavano avanti ad essa reticolati, fili spinati, istrici e cavalli di frisia.
Una rete di profondi camminamenti collegava le trincee con la linea immediatamente più arretrata, dove in genere si situavano i comandi, le batterie di artiglieria e le bombarde, i posti di medicazione, i magazzini logistici. Laddove la configurazione del terreno lo permetteva, i servizi di supporto ai combattenti in prima linea e i ricoveri per le truppe di rincalzo venivano sistemati in più sicure gallerie.
Nel corso della guerra assunse crescente rilievo l’impiego delle bombarde, sia per disintegrare la rete di reticolati, sia per aprire brecce nelle trincee nemiche. Ai primi ordigni di importazione francese e britannica si affiancarono armi di produzione nazionale, tra cui le bombarde da 240 mm e da 400 mm, capace quest’ultima di sparare bombe di 285 kg a 4.100 metri di distanza, aprendo crateri di circa 10 metri di diametro. La prossimità alla prima linea espose i soldati bombardieri al fuoco di controbatteria delle artiglierie nemiche, tanto che subirono pesanti perdite.
I ricoveri
La costruzione di un riparo individuale contro le intemperie, le pallottole vaganti e le schegge di granata e shrapnel (che esplodevano anche a due metri di altezza e scagliavano una gragnola di pallette di piombo o spezzoni di ferro) era in gran parte lasciato all’iniziativa del singolo. Tornava utile tutto ciò che l’ambiente naturale poteva offrire. Sono ancora parole di Gabriotti: “Il primo giorno di trincea è dedicato all’assestamento personale ed è meraviglioso l’osservare come con mezzi limitatissimi [i soldati] siano capaci di prepararsi rifugi discreti. Un ricovero di tronchi d’albero, coperto di sacchetti pieni di terra e della dimensione di due metri per uno e cinquanta è l’ultra desiderabile. Nelle mie peregrinazioni due sole volte ho avuto simile fortuna, ché le altre ho dovuto contentarmi della tenda o di cortecce di albero!”.
Il cappellano Domenico Vannocchi sottolineò come i rifugi di emergenza, per quanto disagevoli, fossero preferibili alle baracche delle immediate retrovie: “Dormo su poca paglia sotto una roccia fra due scogli. Luogo sicuro dal tiro, ma alquanto tetro ed umido, specie per la cattiva stagione che non fa altro che piovere. Vi erano anche baracche di legno, ma non si possono abitare perché sotto il tiro dell’artiglieria nemica. Difatti ne abitavo una assieme a due ufficiali medici, ed è stata sfasciata da una granata nemica. Fu un vero miracolo che non ci ha preso dentro”. Piero Pichi-Sermolli scrisse alla madre: “La notte non la passo nella baracchetta ma invece quasi tutta colle vedette: il moschetto fra le mani, le bombe ed i sassi vicini e gli orecchi tesi. All’alba poi, quando il pericolo di un attacco di sorpresa scompare, entro nel sacco a pelo e faccio una dormita di 5 o 6 ore, naturalmente vestito e con le scarpe; per non insudiciare e bagnare il sacco a pelo ficco i piedi dentro due sacchi a terra (quelli che servono per fare le trincee) e così son sempre pronto a qualsiasi evento”.
I reparti erano equipaggiati anche con tende, che tornavano utili in posizioni meno esposte al fuoco nemico. Luigi Leonardi la piantò su un pendio dell’Altopiano di Asiago, “dopo avere spianato in un pianerottolo fatto apposta colla vanghetta e picozzino” e colmando con rami di abete e con frasche la parte dove mancava il terreno. Insieme ai commilitoni vi ripose zaini, fucili, giberne, tascapani, borracce, coperte e mantelle. Commentò soddisfatto: “La mia tenda è una delle migliori perché così la voglio. […] Tutto è soffice; sembrerebbe il tappeto di una regina della foresta se nella notte non ci fosse il freddo. Pur avvoltolato nella coperta di lana e nella mantella, tanto il freddo penetra e fa dormire poco”.
L’insidia del maltempo
La precarietà dei rifugi risultava evidente in condizioni meteorologiche avverse. Pioggia, neve e freddo diventarono altre temibili insidie. L’acqua bagnava i vestiti, le coperte, i giacigli. L’impossibilità di asciugarsi costringeva a restare a lungo nell’umidità, fradici, con le divise inzaccherate, immobilizzati nel fango. Il gelo e la neve, poi, rendevano critica la condizione dei soldati. Il corpo si raffreddava e le estremità, specie i piedi, si congelavano. Per quei piedi rigonfi talvolta non vi era altro rimedio che l’amputazione.
Dell’asprezza di tali situazione offrono una cruda prova alcuni stralci del diario di Domenico Vannocchi, accampato sotto il Col di Lana nel settembre 1915:
“Certo che lo stare 12 ore in trincea senza potersi muovere sotto la neve ed il fango è cosa che rattrista” (2 settembre); “Anche oggi ha nevicato, freddo intenso nella nottata zero gradi, […] nelle trincee fango fino a mezza gamba” (4 settembre); “Seguita il pessimo tempo e nevica nelle cime più alte. Nottata agitata per l’acqua che affluisce da ogni parte nel mio ricovero” (26 settembre); “Piove ininterrottamente. Nella mia grotta piove da ogni parte sono costretto ad alzarmi durante la notte a causa l’acqua. Cerco di riparare con teli da tenda e [illeggibile]. Giornata del resto quieta. Le strade molto fangose, le trincee piene di fango e si vedono dei soldati infangati fino sopra il ginocchio e fanno pietà” (29 settembre); “Quando penso al freddo che devono soffrire quei poveri soldati nelle trincee rabbrividisco. Sento freddo io ed infine sono al coperto. Poveri soldati. Questo è un sacrificio grande per la Patria quanto il sacrificare la vita. Eppure sopportano con rassegnazione senza maledire ed imprecare alla vita e ai superiori. Certo che il loro sguardo dice tutte le loro sofferenze. Quanti eroi!” (30 settembre); “Vedo dei soldati tornare dalle trincee tutto fango. Fanno ribrezzo e muoverebbero a pietà anche i sassi” (1° ottobre).
Altre testimonianze di soldati altotiberini descrivono vividamente gli stenti provocati dal maltempo e quanto mettessero a repentaglio la salute. Scrisse Dino Garinei: “Più grande è il disagio nei giorni piovosi, quando ci si trova in terreno nuovo dove ancora non è stato possibile costruire le trincee e la pioggia cade a dirotto e bagnati fino agli occhi siamo noi, bagnate sono le coperte che dovrebbero ripararci dal freddo; cosicché per non avere di meglio ci sdraiamo nel fango e ci gettiamo indosso quelle coperte così come sono”. E il caporale Deni: “Non dimenticherò per lungo tempo la nottata trascorsa. Cominciò ieri sera a piovere fortemente sopra di noi che stavamo all’aperto e andavamo avanti e indietro per portare ordini; dopo alcune ore non sapevo se ero divenuto un torrente, l’acqua usciva dalle scarpe, gli indumenti di cambio bagnati, mi sono accoccolato accanto ai miei colleghi, tutti si batteva i denti per il freddo della notte e si imprecava sull’odiato nemico causa di tante sofferenze. Oggi ci siamo asciugati al sole”. L’alpino Piero Pichi-Sermolli, in alta montagna, si trovò in situazioni estreme: “Al bombardamento si è poi aggiunto un temporale inverosimilmente terribile. […] Figuratevi che le nostre baionette, le unghie, i chiodi delle scarpe sprizzavano scintille elettriche; anche la cima dei capelli, se si toccavano con le mani, era carica d’elettricità. Il fulmine ci ha fusi tutti i chiodi delle baracche, ci faceva partire i colpi del fucile, ci fondeva i pezzi del fucile: era insomma terribile. Per fortuna nessuno è rimasto colpito”.
Per quanto il maltempo seminasse malattie e morte, la capacità di adattamento e di resistenza dei soldati fu sorprendente. Il bersagliere Giovanni Gaggi, che con la neve, sui colli altotiberini, aveva a che fare solo in pieno inverno, si stupì quando la vide in Alto Cadore a settembre: “Quà esiste in eterno”. Poi finì con l’abituarsi e cessò di lamentarsene con i famigliari: “Fa freddo e fa anche la neve come il mese di gennaio, però non ci [si] fa caso che il tempo buono non si vede quasi mai”; e ancora: “Quà vi è molta neve e tutti i giorni ne fa, ma si sta nelle macchie di abeti e si fa pure il fuoco per scaldarci”.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.