A Città di Castello mons. Beniamino Schivo (1910-2012) fu autorizzato a rimanere in città nelle settimane del passaggio del fronte bellico in quanto direttore del seminario vescovile. In seguito al saccheggio da parte dei tedeschi dell’ospedale civile, allestì nei locali del seminario un ospedale di emergenza per soccorrere malati e feriti.
Da tempo Schivo – originario di Gallio (Vicenza) e ordinato sacerdote a Città di Castello nel 1933 – aiutava una famiglia ebrea tedesca rifugiatasi in Italia e sottoposta a internamento dopo l’ingresso in guerra. Paul e Johanna Korn, con la figlia Ursula, erano giunti a Città di Castello nel 1941. Quando i tedeschi invasero il Paese, il sacerdote li nascose prima nella villa rurale delle suore salesiane a Pozio, poi in un altro rifugio sulle vicine alture, provvedendo a inviare loro i viveri necessari. All’approssimarsi del fronte bellico, con le truppe tedesche ormai stabilmente nella zona, Schivo fece ricorso a ulteriori stratagemmi per sottrarre al rischio della deportazione Johanna e Ursula Korn, ospitandole nel convento delle suore del Sacro Cuore e nel seminario vescovile. Nel 1986 la Fondazione Yad Vashem di Gerusalemme gli ha attribuito il riconoscimento di “giusto tra le nazioni”. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli ha conferito nel 2008 la medaglia d’oro al valor civile per il “mirabile esempio di coerenza e di rigore morale fondato sui più alti valori cristiani e di solidarietà umana”. Poco dopo la sua morte, il 15 maggio 2012, lo si è ricordato piantando un ulivo lungo il giardino di viale Leopoldo Franchetti a Città di Castello.
È stato riconosciuto “giusto tra le nazioni” nel 2013 anche il sacerdote di Sansepolcro don Duilio Mengozzi (1915-2005). Parroco di San Giovanni Battista al Trebbio, durante il passaggio del fronte ospitò nella sua canonica l’anziana ebrea Emma Goldshem, che non aveva voluto seguire i congiunti scappati in Svizzera. La fece passare per sua madre e la salvò da sicuro arresto da parte dei tedeschi. Mengozzi era pure cappellano dell’ospedale di Sansepolcro. Vi furono ricoverati, fingendoli ammalati di tifo per evitarne la cattura, un militare alleato, un ebreo internato ad Anghiari e il critico letterario Attilio Momigliano, anch’egli ebreo. In quell’epoca Momigliano fu con la moglie pure a Città di Castello, dove frequentò il libraio Giuseppe Paci, per la cui casa editrice “La Tifernate” scrisse la prefazione a un’edizione di Pinocchio.
Il riconoscimento della Fondazione Yad Vashem è stato attribuito anche a Giocondo Marconi e alla moglie Annina. Accolsero nella loro casa di Anghiari la famiglia ebrea Saghi. Di origine polacca, i genitori con i due bambini erano fuggiti da Amburgo in Italia prima della sua entrata in guerra, trasferendosi poi ad Anghiari. Lì avevano cambiato identità, assumendo il cognome di Scapelli. Il falegname Giocondo Marconi era uno dei punti di riferimento dell’antifascismo anghiarese, che cooperò per alleviare le tribolazioni dei Saghi e di altri ebrei confinati nel paese durante la guerra.
In effetti la solidarietà mostrata agli ebrei dagli altotiberini fu vasta e andò ben oltre i casi sopra ricordati. Soprattutto dopo che, il 30 novembre 1943, il regime fascista repubblicano avviò la fase estrema della persecuzione nei loro confronti, ordinandone l’arresto. Si distinse l’ambiente cattolico. Ebrei trovarono rifugio nella canonica del duomo di Città di Castello, da don Bernardo Topi, a Sigliano e Campalla, da don Alessandro Bartolomei, fino alle più sperdute parrocchie dell’Appennino umbro-marchigiano, come a Pieve dei Graticcioli (Sant’Angelo in Vado), parrocchia del sacerdote tifernate don Augusto Giombini. Ma trovarono tanti complici anche tra i laici. Quasi tutti quelli che vennero internati a Umbertide si salvarono grazie al sostegno degli antifascisti del luogo, che o li nascosero, o ne agevolarono l’irreperibilità, munendoli anche di documenti falsi. E fu per i documenti che li qualificavano come cittadini di Caprese Michelangelo che i membri di una famiglia ebraica riuscirono a mettersi in salvo in Svizzera.
Un manifesto del prefetto reggente di Perugia affisso a fine luglio a Umbertide e Città di Castello da poco liberate, sanciva la fine dell’ignobile caccia agli ebrei: revocava tutti i precedenti decreti che li perseguitavano e proclamava “contrarie al sentimento latino e alla millenaria civiltà del popolo italiano” le disposizioni razziali “imposte al servilismo fascista dalla prepotenza tedesca”.
Per il testo integrale, con le note e i riferimenti iconografici, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.