Era, nonostante i suoi settanta anni d’età, un Franchetti dinamico e proiettato verso il futuro quell’uomo di cui, a Città di Castello, si seguiva con attenzione l’attività pubblica e che ancora interveniva con autorevolezza nelle questioni locali. Nel novembre 1917, quando egli si suicidò per lo sconforto provocato dalla disastrosa situazione militare (ma allora si disse “in seguito ad improvviso attacco cardiaco”), tutti rimasero turbati. Anche i vecchi avversari socialisti ammisero “la viva impressione” suscitata dalla notizia, “specie nel popolino” – scrisse “La Rivendicazione” – “dove il Franchetti godeva di fama di uomo largamente caritatevole”.
I tifernati poterono però valutare appieno l’eccezionalità della figura di questo loro concittadino d’adozione quando ne fu reso noto il testamento. Tutto aveva previsto, il barone, affinché non venissero a mancare le risorse per le istituzioni più care a lui e alla moglie: il Laboratorio Tela Umbra, le Scuole elementari della Montesca e di Rovigliano, gli asili infantili. Ancora più straordinaria apparve la decisione di lasciare la proprietà dei poderi ai coloni che vi lavoravano.
Nella storia della famiglia Franchetti si erano già verificati episodi di generosi lasciti testamentari. Ma anche a Città di Castello il barone era stato testimone di significativi esempi di altruismo e di attaccamento alla propria terra. Nel 1903 Scipione Lapi aveva indicato come eredi del suo Stabilimento Tipo-Litografico gli operai; un gesto così straordinario non ebbe seguito solo perché le condizioni di indebitamento dell’azienda impedirono di dare esecuzione alle disposizioni testamentarie. Di lì a qualche anno, sul finire del 1909, nasceva in città la Scuola Operaia; per quanto voluta dai migliori intellettuali e artigiani tifernati, essa coronava il sogno di un altro filantropo, il marchese GioOttavio Bufalini, che aveva lasciato un ingente patrimonio per dar vita all’istituto professionale.
La decisione di Franchetti di rendere i suoi coloni proprietari dei poderi suscitò stupore e ammirazione. Vi fu la consapevolezza che si trattava della scelta coraggiosa di un uomo che aveva sempre creduto nella necessità di sviluppare la piccola proprietà agricola per il bene della Nazione e che voleva offrire tale possibilità ai suoi contadini, da lui selezionati con cura, istruiti nelle sue scuole, liberati dal peso di ogni debito e addestrati a ben coltivare la terra. Questi mezzadri si sentirono in dovere di sottoscrivere una pubblica dichiarazione di “eterna ed immutabile riconoscenza” verso il barone, con un risoluto impegno per il futuro: “[…] abbiamo il sincero e fermo proposito di non distaccarci dalle terre elargiteci, proseguendo in piena pace domestica e con crescente amore a coltivarla secondo gli intendimenti dimostrati dall’antico virtuoso e sapiente proprietario, volendole conservare gelosamente tali e quali da Lui ci sono pervenute […]”.
Estratto, senza note, del saggio Le vicende politiche di Leopoldo Franchetti a Città di Castello, di Alvaro Tacchini, in Leopoldo e Alice Franchetti e il loro tempo, a cura di A. Tacchini e P. Pezzino, Petruzzi Editore, 2002.