Il crollo del regime pontificio gettò nello sconforto i suoi più convinti sostenitori. Al di là di ogni questione politica e istituzionale, vi era in essi la convinzione che solo mantenendo anche il potere temporale del papa si potevano contrastare il degrado morale e gli attacchi alla religione.
Emblematica l’idea che aveva il tifernate Tommaso Rossi del liberalismo, un partito che riteneva in realtà “puramente Sovvertitore di ogni principio Religioso, morale, e nemico di ogni freno, promotore di immoralità, e di ogni sfrenata licenza”. Rossi era uno dei “codini” o “barbacani”, come allora venivano bollati i sostenitori del papa; anzi lo consideravano il “capitano dei barbacani”. Le annotazioni vergate nel suo diario trasudano disprezzo per i patrioti, o “partitanti della Rivoluzione”, di cui enfatizza più volte la vigliaccheria, l’opportunismo e, appunto, l’immoralità. Un senso di disprezzo esteso anche ai piemontesi, accusati di una sin troppo facile vittoria al cospetto del fragile esercito dello Stato della Chiesa, aggredito proditoriamente. Un concetto espresso anche da Bonfiglio Mura in un volume pubblicato nel 1863. Così descrisse lo sconvolgimento provocato dall’invasione dell’Umbria e delle Marche da parte dei piemontesi, definiti i “nuovi Longobardi”:
“Quest’ordine disordinato non fu solo il trionfo della rivoluzione ed un’azione degna degli antichi Longobardi, anziché dei figli d’un popolo civile, ma fu di più il trionfo dell’ingiustizia, dell’immoralità e del delitto, l’oppressione e la schiavitù degli onesti, ed il caos delle nozioni più elementari dell’ordine morale e politico, della giustizia, del diritto e della morale cattolica ed internazionale. La storia non ci smentirà certamente […]”.
Uno degli esempi portati da Bonfiglio Mora del disprezzo della moralità da parte dei “nuovi Longobardi” riguarda proprio gli eventi dell’11 settembre a Città di Castello, con i gendarmi “carcerati, spogliati, percossi e schiaffeggiati perfin da infami sgualdrine, e condannati a morir di fame senza la cauta pietà di alcuni generosi”. Pure Tommaso Rossi accusò di nefandezze gli insorti che entrarono in città per porta San Florido, quando ormai lo scontro a fuoco era cessato. Questa “eroica vivissima Canaglia […] appena passato il primo scontro di pericolo, si gittò con tutto il coraggio del traditor più vile sopra quegl’inermi e confusi Carabinieri, caricandoli di ogni immaginabile sfregio ed insulto, e persino di sputi, schiaffi, e di percosse brutali, spogliandoli poi […] di tutti i denari, di orologi, di sacco, e persino de’ calzoni, denudandoli insomma come fanno gl’Assassini”. Rossi asserì inoltre che i più esagitati saccheggiarono le case dei gendarmi pontifici e che, se tutto poi finì lì, fu solo per l’intervento dei soldati piemontesi.
Bonfiglio Mora prese spunto da quanto successo a Città di Castello per un altro esempio dell’immoralità che era destinata a minare la società liberale: “il ballo dato nella piazza pubblica della stessa città alla soldatesca piemontese, e capitanato dalla famigerata marchesa Pasqui, antica portavoce della rivoluzione tra l’Umbria e la Toscana”. Vi è una totale assonanza con quanto scritto nel suo diario da Tommaso Rossi, che parlò di “ripetute Danze perfino nella pubblica Piazza, ove non solo le più sfrontate del volgo, ma alcune anche delle nostre sedicenti Signore per mostrarsi veramente Meretrici della Patria così rigenerata, intervenivano fra i Militari Amplessi”.
L’attivismo patriottico di Giulia Niccolini, una nobile fiorentina sposatasi con il marchese tifernate Giuseppe Pasqui nel 1835, era noto in città. Tanto ardore – specialmente per una causa considerata rivoluzionaria – suscitò nei cattolici una disistima per il genere femminile che trapela dalle pagine del diario di Rossi: “Sedotta, o seduttrice è manifesto in oggi che la Donna viene dalla Rivoluzione ammessa nelle sue file come elemento necessario di corruzione, come mezzo meno sospetto, e più efficace di seduzione per la Gioventù, e come fornita di tutte quelle turpitudini che Essa pone in atto quando vuole per diffondere quella immoralità, che la Rivoluzione desidera generalizzare a distruzione della Religione, e di ogni sano principio che l’uomo distingue dai bruti”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).