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Il Primo Maggio a Pietralunga

“Sono tornato da un lungo giro nelle zone. Le cose vanno normalizzandosi. Apecchio e Pietralunga sono completamente in mano ai 'partigiani', così essi si fanno chiamare, non volendo il nome di ribelli”. Così scrisse Venanzio Gabriotti nel suo diario il 2 maggio 1944. È il racconto di un uomo entusiasta per tutto ciò di cui era stato testimone, che lo gratificava per l’impegno profuso nella lotta al nazi-fascismo: “Lassù pare di vivere un'altra vita. Pattuglie passeggiano per i paesi armate e in divisa. La divisa consiste particolarmente in un fazzoletto rosso al collo e tricolore al berretto e al braccio. […] Fui ad Apecchio e Sant'Andrea di Montebello. Qui sostai la notte del 1° maggio. Alle 24.30 ho assistito al lancio a mezzo di paracadute di armi, scarpe, vestiario, ecc. alle formazioni di quel posto. Immaginarsi l'entusiasmo di quei giovani. Alle 8 a Morena – ove avvenne lo sgancio – il parroco don Marino [Ceccarelli], che è uno degli organizzatori più fervidi, ha celebrato la messa per tutti. A mezzogiorno sono andato a Castelfranco, ricevuto affettuosamente da don Luigi Menghi. La sera a Pietralunga, ove tutto è 'ribelle'. […] Nella giornata, per tutto il territorio, si è celebrata la festa del Primo Maggio”.
Pietralunga era stata occupata dalla Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino”, la formazione che coordinava le bande di partigiani nel territorio appenninico tra Città di Castello, Umbertide, Pietralunga, Gubbio e Apecchio. Gabriotti sapeva che la “San Faustino” avrebbe ricevuto rifornimenti aviotrasportati dagli Alleati e volle essere presente all’evento, sia per incontrare i partigiani tifernati nel loro rifugio di Montebello, sia per stabilire un maggiore coordinamento tra i combattenti della Resistenza umbra e quelli marchigiana. Del resto si era assunto proprio questo compito quando a Città di Castello – il 14 aprile 1944 – venne costituito il Comitato Clandestino di Soccorso. In quanto amministratore dei beni della diocesi, aveva modo di frequentare spesso le aree rurali e poteva così celare l’attività clandestina nel contesto degli impegni di lavoro.
Nonostante i suoi 61 anni, Gabriotti aveva raggiunto il territorio pietralunghese a piedi. Il pomeriggio del 30 aprile si incontrò con il comandante della “San Faustino”, il tifernate Stelio Pierangeli. Era figlio di un noto e influente personaggio, l’avvocato socialista Giulio, con il quale Gabriotti aveva condiviso le vicende frenetiche ed esaltanti tra la prima, illusoria, caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e l’armistizio dell’8 settembre. Nel quartiere generale della “San Faustino” Gabriotti redasse un messaggio per i partigiani, plaudendo ai successi militari degli ultimi giorni e alla temporanea liberazione di Pietralunga. Poi si portò a Montebello, per una visita ai giovani di Città di Castello alla macchia, e successivamente a Morena, dove gravitava una banda che aveva nel parroco don Marino Ceccarelli il suo punto di riferimento. Scrisse il sacerdote: “Era la prima volta che [Gabriotti] veniva a Morena, piangente per la gioia sebbene ridotto in misere condizioni per il molto fango (anziano com'era, varie ore aveva camminato in quella notte”). L’indomani, a Pietralunga, Gabriotti fu ospitato dall’arciprete Pompilio Mandrelli, altro sacerdote vicino alla Resistenza. In quella giornata di esultanza, nella quale per la prima volta tornava a essere celebrata liberamente la Festa del Lavoro, Gabriotti – esponente di spicco dell’ambiente cattolico – disse scherzosamente a Mandrelli di essere venuto a “portare un po’ di tricolore in mezzo al rosso”.
Alle 8 e un quarto della mattina del 2 maggio Gabriotti ripartì da Pietralunga per Città di Castello. Percorse a piedi“l'aspra strada” tra le alture appenniniche, insieme ad Aldo Bologni. Considerava un“collaboratore impareggiabile” questo studente universitario di ingegneria di 23 anni, all’epoca sotto-tenente di artiglieria di complemento, e lo aveva voluto al suo fianco nel Comitato Clandestino di Soccorso. Appena arrivarono presso il cimitero tifernate, verso le ore 15.30, assistettero al bombardamento alleato della zona di Selci Lama, che provocò la morte di una donna.
Il diario di Gabriotti di fatto si interrompe qui. Poi elenca solo l’ora di inizio e di cessazione dei tre allarmi aerei del 3 e 4 maggio. In quei due giorni fu molto indaffarato nel continuare a tessere la sua attività clandestina.
 
Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.