Cinque anni dopo l’insurrezione del 1831, quando il governo pontificio aveva saldamente in pugno il controllo della società, il movimento patriottico e liberale di Città di Castello cospirava nell’ombra. Nei rapporti con i patrioti toscani e marchigiani erano coinvolti diversi protagonisti del 1831: Giuseppe Bufalini, Marcello Beccherucci e GioBatta Signoretti avevano fatto parte del Comitato Provvisorio di Governo di Città di Castello; Pietro Dini e Giuseppe Ricci si erano allora molto esposti politicamente; quanto a Luigi Bufalini, già capo della Guardia Nazionale, sembra dunque che nel 1836 fosse già tornato dall’esilio in Francia. Altri tifernati già sospettati di patriottismo dalle autorità pontificie li ritroveremo negli avvenimenti degli anni successivi: Antonio Sediari, Erasmo Anderlini, Bartolomeo Lensi. Si trattava di un gruppo di persone benestanti e di buona cultura: per lo più possidenti o autorevoli professionisti. Il fatto che non compaiano nomi di artigiani o di altre categorie di lavoratori – tra i quali non era meno forte l’idealità nazionale e liberale – fa supporre che questi personaggi, in virtù della loro cultura e dei loro mezzi, avessero assunto una funzione direttiva nella rete cospirativa clandestina.
Una delle lettere citate indica Giuseppe Ricci e un Bufalini (probabilmente Luigi) come sospetti esponenti della Giovane Italia. Quindi si ipotizzava la presenza dell’organizzazione promossa da Giuseppe Mazzini anche a Città di Castello e nel suo territorio. Un’ipotesi fondata, considerato il ruolo in seguito riconosciuto proprio a Luigi Bufalini e al fabbro Francesco Milanesi di essere stati i punti di riferimento tifernati di un’attività segreta della quale appaiono ancora indistinti sia i limiti temporali sia i confini tra Carboneria e Giovane Italia. Ersilio Michel, studioso della Giovane Italia, affermò che questa società patriottica, “sorta e cresciuta sulle rovine della Carboneria”, ebbe senz’altro una sua forte “congrega” a Perugia. Era probabilmente l’unica in Umbria e ad essa dovevano essere affiliati gli aderenti di altri centri periferici. La carenza di documentazione, soprattutto per le esigenze di segretezza imposte dall’attività clandestina, impediva – e ancora impedisce – di conoscere più a fondo sia la struttura organizzativa umbra della Giovane Italia, sia le caratteristiche e il ruolo della sua diramazione nell’Alta Valle del Tevere, che certamente ci fu.
Tra la fine degli anni ’30 e la prima metà del decennio successivo non avvennero fatti di rilievo dal punto di vista risorgimentale. Una situazione di apparente tranquillità che riguardò l’intero territorio provinciale. Vi furono momenti di forte tensione sociale, ma provocati dalla scarsità del raccolto e dalla penuria di generi di prima necessità per i ceti più poveri.
Il mondo contadino e il povero bracciantato urbano subivano i problemi della sopravvivenza quotidiana senza riferire le loro tribolazioni al malgoverno delle autorità pontificie; né i patrioti, scarsi di numero e costretti alla clandestinità, erano in grado di sobillare il malcontento sociale a vantaggio della causa nazionale e liberale. Era generalmente condivisa una visione della società intrisa di paternalismo e l’evoluzione di una più matura coscienza politica, specie tra gli artigiani, avrebbe richiesto ancora tempo.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).