Il primo manifesto pubblicato dai partiti democratici di Città di Castello.
Il numero unico stampato dagli antifascisti di Città di Castello dopo la prima caduta del fascismo.

Il movimento antifascista nell’autunno del 1943 ad Anghiari, Sansepolcro e Città di Castello

Nella prima metà di ottobre 1943 il nucleo clandestino antifascista di Sansepolcro stava cercando di allargare i contatti a livello di vallata. Ne è prova il diario di Venanzio Gabriotti, l’oppositore più noto del regime a Città di Castello. Scrisse già il 18 settembre: “Anche gli amici della Toscana hanno allacciato rapporti con noi per accordarci su un programma comune, specie nel caso di rappresaglie da parte dei tedeschi che costringessero alcuni a riparare altrove. Fra le persone conosciute della Toscana sono il tenente [spazio bianco] e [spazio bianco] di Sansepolcro, esso pure ufficiale. Questi sono particolarmente dedicati all’organizzazione operai. Fanno parte del Gruppo d’Azione”. Tornò sull’argomento il 14 ottobre, con annotazioni di grande interesse sul confronto politico che stava aprendosi tra persone di diverse generazioni e di varia estrazione ideologica e sulla maturazione di una unità democratica e antifascista proiettata anche verso il futuro:

Stamani sono venuti da me due giovani da Sansepolcro. Mi ritenevano socialista e, avendo iniziato un movimento organizzativo, volevano consigli e collegarsi con le organizzazioni che pensano siano dirette o collegate con me. Ho fatto presente che non sono socialista ma democratico-cristiano, ma che oggi non contano le denominazioni, perché occorre riesaminare tutti i programmi per ispirarsi tutti ad un unico fine: il bene materiale e morale del popolo. Quindi programma spinto, accentuato verso le rivendicazioni sociali […]. Ho capito che essi credevano alla formazione di una società basata sui principi da me enunciati e che al movimento che stanno creando in questa zona hanno dato il nome ‘socialista’, ma potrebbero dare di democratico-sociale. Simpatico il loro entusiasmo e la loro fede, che fa vedere come in molti giovani si sviluppi il senso della responsabilità di fronte ai problemi della vita e si formi la personalità capace poi di operare con decisione. Essi in fondo vorrebbero costituire raggruppamenti o ‘bande’ pronte ad affiancare l’azione dell’esercito italiano alle dipendenze di Badoglio, ma, anche questa azione è transitoria, vogliono unire i gregari con una tessera, un giuramento, cioè con vincoli che permangano anche conclusa la guerra, per poi operare nel campo sociale.

Perché allora questo rinnovamento dovrebbe assumere un’etichetta di parte ben marcata, quando essi, gli iniziatori, sono i primi a volere una grande libertà d’azione nella formazione del partito di domani che dovrà guidare l’Italia? Hanno riconosciuto di comprendermi e di apprezzarmi. Hanno parecchi aderenti e vorrebbero estendere la rete nell’intera valle del Tevere. […] Sono penetrati negli ambienti dei ferrovieri, degli operai della Buitoni. È strano come essi abbiano pensato di ricorrere a me, che è noto abbia una formazione politica ben determinata”.

Gabriotti dunque, vecchio dirigente, anche a livello provinciale, del Partito Popolare e avversario dei socialisti fino all’avvento del fascismo, auspicava la più vasta aggregazione unitaria possibile contro la dittatura. Per questo era, e rimase, il punto di riferimento a Città di Castello degli antifascisti di Sansepolcro. Si legge ancora nel suo diario alla data del 30 dicembre: “Ho avuto un lungo colloquio con gli amici di Sansepolcro: per i collegamenti”. E il 4 gennaio: “Iersera fui a Sansepolcro ed ebbi un colloquio con [Eugenio] Perugini. Persona molto a posto, che ragiona molto bene! Ha le stesse mie idee in merito alla situazione”.

I contatti con gli antifascisti della vicina Toscana sarebbero proseguiti. A febbraio Gabriotti aiutò a eludere le ricerche della polizia il maestro Giuseppe Rossi, che era sfuggito all’arresto a Sansepolcro e lo aveva raggiunto a Città di Castello. Nel contempo Gabriotti – con l’ausilio dell’ispettore scolastico di Umbertide Giulio Briziarelli – aveva aperto un ponte anche con Arezzo, incontrando più volte tra ottobre e novembre Antonio Curina, figura tra le più importanti del movimento resistenziale aretino.

Proprio Curina il 2 novembre 1943 costituì a Sansepolcro il Comitato di Concentrazione Antifascista, che annoverò nel suo ambito l’ex deputato socialista Luigi Bosi, i maestri Carlo Dragoni, Giuseppe Rossi e Ado Mariucci, il prof. Rodolfo Pichi Sermolli e Dario Giubilei; poi vi sarebbero entrati anche Ugo Fusco e Sandro Marzani. Come detto, si dedicò prevalentemente all’attività assistenziale a favore degli internati slavi fuggiti da Renicci. Contemporaneamente, anche per contrasti di carattere generazionale e strategico, si formò un Comitato Clandestino Operativo di Liberazione, più orientato verso forme concrete di Resistenza, anche armata. Secondo Orlando Pucci, che ne fece parte, vi erano Dario Alberti, Francesco Berghi, Ivo Pasquetti, Ugo Fusco, Claudio Longo, Athos Fiordelli e altri ancora.

Era a questo comitato che faceva riferimento un combattivo nucleo di giovani disposti ad andare alla macchia per combattere. Li animava Eduino Francini, appena diciassettenne. Originario di Massa Carrara, viveva con i parenti materni a Sansepolcro dopo la morte della madre e l’emigrazione in Argentina del padre. Si era arruolato volontario in Marina, per poi disertare dopo l’8 settembre. I primi di ottobre incontrò Antonio Curina, ad Arezzo. Funse da intermediario l’anarchico anghiarese Beppone Livi, il quale comunicò al ragazzo la parola d’ordine per farsi riconoscere: “Alta Valle del Tevere”. Curina rimase impressionato dall’entusiasmo di Francini (“Eduino disse che era disposto a fare qualsiasi cosa per la Resistenza”), tanto da dovergli raccomandare maggiore prudenza. La costituzione della banda partigiana di Sansepolcro fu decisa in quella circostanza e si concretizzò il 7 novembre.

Beppone Livi è una figura di assoluto rilievo dell’antifascismo di Anghiari. Fruttivendolo – ma personaggio dai diversi mestieri – aveva allora 44 anni. Godendo della fiducia di esponenti di spicco del CPCA di Arezzo, quali Antonio Curina e l’avv. Sante Tani, tenne i contatti tra il capoluogo e la Valtiberina toscana. Nella sua già ricordata attività di assistenza agli evasi da Renicci agì con tale generosità da mettere a disposizione tutte le sue risorse finanziarie. Pagò anche col carcere il suo impegno: tenuto sotto stretto controllo dalle autorità fasciste, rimase in prigione tra la fine di ottobre e il dicembre 1943; poi sarebbe stato ancora incarcerato dal febbraio all’aprile 1944. Quand’era in cella ad Arezzo, per evitare che i fascisti si impossessassero di documenti compromettenti che aveva indosso, li ingoiò. Uscito di prigione, avrebbe raggiunto i compagni alla macchia tra l’Anghiarese e l’Alpe di Catenaia, assumendo i nomi di battaglia di “Unico” e “Iconoclasta”. Gli strapazzi della vita da partigiano ne misero a dura prova la salute; oltre a un’infermità polmonare, subì piccole ferite in uno scontro a fuoco. La moglie Angiola Crociani, detta “Giangia”, lo sostenne con convinzione. Durante la sua detenzione fu lei, su indicazione dei vertici della Resistenza aretina, a “mantenere contatto con i gruppi partigiani operanti a Ponte alla Piera e Caprese Michelangelo”. Livi fu in collegamento anche con il Comitato di Liberazione di Firenze, soprattutto con suoi esponenti azionisti e anarchici, e contribuì a smascherare una spia infiltrata nella Resistenza.

Erano necessariamente oppositori del regime con una certa esperienza politica, anche se non tra i più noti, a cominciare a tessere la tela della cospirazione antifascista. Oltre a Livi, ad Anghiari si mossero due artigiani calzolai: il quarantasettenne comunista Amedeo Cerboni, espatriato in Francia come perseguitato politico e da poco rimpatriato, e il quarantenne Francesco Rumori. Questi ebbe vari incontri con gli inviati del CPCA aretino e prese contatto con Venanzio Gabriotti a Città di Castello, di cui era originario. Un altro calzolaio anghiarese, il quarantenne Antonio Ferrini, funse da raccordo tra la sua città e Sansepolcro, dove allora viveva prevalentemente l’impegno politico. Era reduce dal confino presso Matera per le sue idee comuniste. Le autorità di polizia lo avevano arrestato nell’agosto 1941 per propaganda sovversiva e continuavano a tenerlo d’occhio perché “intelligente e scaltro, nonché di carattere prudente e riservato”. Nel nucleo antifascista confluirono pure Matteo Tagliaferri, Giocondo Marconi, Giuseppe Rossi e Gino Procelli. Maturò così la costituzione, all’inizio di gennaio 1944, del Comitato Clandestino di Anghiari.

Il gruppo si adoperò per far affluire rifornimenti a chi era alla macchia. Tagliaferri aveva già contatti con la banda di “Tifone” e gli fece pervenire generi alimentari. Amedeo Cerboni ebbe a scrivere: “La mia attività fu quella di provvedere vestiario e riparare le scarpe, fornire munizioni ed armi a diverse formazioni partigiane […]”. Di pari passo si dispiegava un’attività di propaganda antifascista intensa, per quanto nascosta. Si legge nella relazione del Comitato Clandestino: “[…] in special modo furono curati i giovani perché non rispondessero alla chiamata alle armi dell’Esercito Repubblichino indicando loro la via del bosco dove il conforto morale e finanziario non sarebbe mancato”. Ancora Cerboni: “Altra attività fu quella di propagare in mezzo ai giovani sottoposti al servizio militare, l’abbandono del loro reparto per raggiungere i compagni alla macchia, in modo da ingrossare le file partigiane”.

I primi di febbraio vi fu il tentativo, con l’aiuto del CPCA aretino e dell’avvocato Sante Tani, di insediare una banda di giovani renitenti anghiaresi sopra Ponte alla Piera. Ma l’iniziativa non sortì gli effetti sperati: “La formazione, per quanto esigua essa fosse, era costituita e comandata sotto la guida dell’avv. Tani. Il comitato anghiarese nutriva piena fiducia in questo gruppo di giovani che teneva sotto le sue cure abituandoli ai non lievi disagi della macchia. Nonostante tutti gli sforzi del comitato per far ingrossare le file del piccolo nucleo, la formazione rimase invariata”. Si reputò opportuno, dunque, far confluire i giovani nella banda di “Tifone”, che stava allora consolidandosi sull’Alpe di Catenaia.

Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016.