Scrisse Garzoni, a proposito delle doti richieste a un falegname: “E’ di mestiero ancora aver cognizione de’ legnami che di continuo s’adoprano, e saper se son secchi o verdi, e saperli metter in opra talmente che non s’abbiano più da torcere; e quando un legno fosse torto, saperlo drizzar col fuoco, e saper distinguere fra legname, e in quai cose s’adopera l’uno più che l’altro […]”.
Le annotazioni che seguono raccolgono le esperienze di alcuni vecchi artigiani. Ai fini della lavorazione, si soleva classificare il legno in dolce, o tenero, e in duro. Era dolce il legno di castagno, pioppo, salice e fico; si considerava invece duro quello di quercia, sorbo, faggio, leccio e carpine. Il noce era una via di mezzo. Il ciliegio poteva essere di due qualità: tenero il “gentile”, duro il “rustico”. Di diverse caratteristiche anche l’acero (“óppio”): duro quello che reggeva la vite, dolce l’altro.
Ecco alcune caratteristiche delle principali specie di legname:
Castagno: Il legno più usato, per infissi, madie, canterani e altri mobili di cucina e per le bare. Veniva impiegato anche per le travature nelle case di piccole dimensioni. Resistentissimo, esigeva però una lunga stagionatura prima dell’utilizzazione. Spesso i falegnami appoggiavano le tavole al muro di casa perché vi scorresse sopra l’acqua della grondaia, spurgandole del nero “tannino”, una sostanza prodotta dal castagno. Si considerava migliore il castagno bianco dello scuro, specie per tinelli e porte. Se tenuto esternamente, stagiona con più facilità.
Noce: Il legno più pregiato e costoso. Le venature creano motivi estetici che ne accrescono il valore. Si lavora bene, però “è più tristo del castagno” ed è soggetto a tarlatura. Il noce locale, nero, non si trova più. Già a suo tempo, per la sua rarità e per i frutti che dava, la pianta veniva tutelata nelle campagne: “E chi gìa a tajè na nóce si ancóra facéa l frutto!”
Pioppo (“albero”): Usato per i mobili più economici e, quando ancora mancava il compensato, per i fondi di quelli di maggior pregio. Il pioppo agatone, ora quasi scomparso, aveva venature simili al noce e vi si ricorreva, una volta patinato, nel caso il noce mancasse o non si volesse tagliare la preziosa pianta da frutto. L’agatone, alto e robusto, era adatto per le lunghe travature; dopo la stagionatura diventava leggero e facile da maneggiare e trasportare. In campagna il pioppo serviva anche per fare le cassette da uva e le scale. Con quello selezionato e ben asciutto si costruivano le botti per il tabacco.
Quercia (“cérqua”): Il legno di quercia veniva adoperato raramente per i mobili, perché duro da lavorare e – si diceva – “non sta mai fermo anche dopo anni di stagionatura”. Il legno deve essere infatti “sciutto béne” e un po’ “fèrmo”, cioè senza il succo della pianta, altrimenti “se móve”. Con la quercia si facevano botti, bigonci, mastelle e “brègni” per i maiali, perché è un legno che non si infradicia (“la cérqua n s’anfràgida; è quel che vorribbe, stè sèmpre a bagno”). La quercia serviva anche per le traverse della ferrovia.
Olmo: Serviva per la fabbricazione dei carri agricoli, per i fondi dei barocci. Si tratta di un legno rustico, intrecciato, resistente, da lavorare con cautela, “perchè si l tocchèi co la mèchina se schiantèa tutto”. Ma vi era anche olmo “bélo”, che si lavorava bene e con il quale si costruivano mobili: lo si chiamava “ólma”.
Acero (“óppio”): Usato per le gambe tornite dei torchi, per gli zoccoli, per i gioghi e poco altro. Dopo il sorbo, l’acero che sorreggeva le viti era il legno più duro. Ma non lo si trovava con facilità. La pianta cresceva molto lentamente e la si tutelava.
Cipresso: Ce n’è di diverse qualità: “L cipréso è l méjo lègno, ma n basta l nóme”. Quello “intreccièto” è meno buono. Inoltre non ci si facevano i mobili, altrimenti “n ci se stà drénto chèsa: c(i)’ha n odóre che te manda via”. Usato per le persiane delle finestre.
Ciliegio: Adatto per il mobilio, purché “bello pulito” per poterlo lavorare bene. Le camere potevano essere o di noce o di ciliegio; i due tipi di legno non si mescolavano. C’era chi cospargeva il ciliegio di calce viva per un giorno o due; il legno acquisiva così una tonalità di color rosso simile al mogano. Ma in genere si preferiva il colore naturale. Anche il ciliegio è soggetto a “muoversi” con il tempo.
Faggio: Può essere di diverse qualità. Per la sua flessibilità, più che mai lo si adoperava per le stanghe dei barocci e dei carretti, così come il frassino. Ci si fabbricavano anche pale e piadinette.
Cerro: Ci si costruiva di tutto, anche mobilio; non infissi esterni, però, perché “s’anfragidèa”. A Scalocchio ci fabbricavano talvolta seggiole, la bure e i pioli delle tregge. Dai tronchi di cerro grande si ricavavano anche traverse per la ferrovia.
Carpine (“càrpino”). Ci facevano “le cósce dei treggini”. Può essere rosso o bianco, più raro.
Acacia (“acacio”): Usato per le stanghe delle carrette e per le “cósce” delle tregge.
Sorbo: Chi aveva il tornio poteva fabbricarci bocce e forme da gioco.
Pino: Non è un legno pregiato. Quella nostrale è una pianta ardua da lavorare; la si taglia con difficoltà. Molto usato, invece, il pino forestiero.
Fico: Difficile a reperirsi. Per la leggerezza si addiceva agli zoccoli dei bambini.
Salice (“salce”): Più leggero dell’acero, usato per gli zoccoletti delle donne.
Gelso(“móro”): Materiale rustico, adatto per le doghe delle botti.
Abete (“abéto”): Legno forestiero, lo si trovava a tavole nei pochi magazzini locali o nei negozi di ferramenta; oppure lo si ordinava da rivenditori forestieri. Vi era un deposito ben fornito anche a Sansepolcro, vicino alla ferrovia. Veniva adoperato per le travature, per gli infissi, per il mobilio di cucina e per i fondi dei mobili da camera. Anche le bare per i poveri erano d’abete.
Per piccoli manufatti venivano impiegati anche altri tipi di legno, l’ornello (“orgnèlo”), il carpine e il corniolo (“corgnólo”). Carpine chiaro e corniolo erano legni duri.