Diventata a pieno titolo Officina Operaia “Gio:Ottavio Bufalini”, la Scuola rafforzò il suo prestigio in città e cominciò a proporsi ben oltre i limiti istituzionali dell’istruzione professionale. Non solo gli artigiani e ogni altro operatore economico, ma anche gli intellettuali la percepirono come un imprescindibile punto di riferimento. Non a caso fu nella sua sede che ebbe luogo un corso di storia dell’arte concluso da una conferenza del sacerdote Enrico Giovagnoli, studioso e direttore della “Leonardo da Vinci”; si venne così formando, tra 1922 e 1923, quella Brigata Amici dell’Arte che rappresentò la prima aggregazione tifernate con scopi di vigilanza sulla conservazione dei monumenti, di sostegno all’artigianato artistico locale e di promozione di mostre d’arte pura e applicata. Tra le figure più autorevoli dell’associazione, insieme a Giovagnoli, vi erano l’onnipresente Giulio Pierangeli e i docenti della Scuola Operaia Marco Tullio Bendini e Nazzareno Giorgi. Un gruppo di autorevoli personaggi, legato da amicizia e stima, da che da allora si sarebbe adoperato a lungo e con successi per la difesa e la promozione del patrimonio culturale, artistico e artigianale del territorio.
E gravitò attorno alla Scuola Operaia l’organizzazione della Mostra Retrospettiva del Ferro Battuto, iniziativa che nell’agosto del 1922 ripropose le tradizioni dell’artigianato artistico tifernate e tentò di cercare ulteriori spazi di mercato per la produzione più raffinata delle botteghe locali: una produzione resa possibile anche dal ruolo svolto dalla Scuola nel formare giovani maestranze capaci di coniugare i saperi tradizionali con le innovazioni nella tecnologia, nell’organizzazione del lavoro e nella commercializzazione dei prodotti.
Vi era dunque la diffusa convinzione che l’artigianato di qualità non sarebbe stato travolto dal dilagare, peraltro inarrestabile, dei prodotti industriali. Giulio Pierangeli dette voce a queste speranze: “La piccola azienda, la piccola industria – malgrado le macabre profezie – vive tenacemente, si diffonde e si moltiplica, utilizzando l’energia elettrica e le macchine prodotte dalla grande industria; la vita rifluisce dal centro alla periferia, e la bottega dell’artiere rinnovata torna a risplendere di una luce sua. Le migliorate condizioni economiche, la più diffusa cultura fanno prendere in uggia la paccottiglia germanica per l’arredamento della casa: si desidera avere vicino l’oggetto, che abbia un’impronta personale, non quello fabbricato a serie sullo stampo unico. La casa deve avere il suo mobile adatto al gusto di chi l’abita, eseguito per commissione, armonizzante con l’ambiente: il mobile, l’infisso non devono avere il carattere commerciale della monotonia, della uniformità, della apparenza: devono essere solidi e ben fatti […]. E anche per questo si riattiva la vitalità della bottega che non solo ripara, ma produce. Per produrre ha bisogno di una maestranza più colta e più capace, che sappia di disegno e di numeri”.
Appena un decennio dopo si ribadiva la fiducia nell’artigianato, purché sorretto da un’istruzione professionale come quella impartita dalla Scuola Operaia. Un’istruzione professionale essenziale anche per i giovani che si inserivano nelle industrie: “L’operaio meccanico ha bisogno di cultura; deve saper intendere il disegno della macchina, deve capirne le leggi e i rapporti, deve intuire le cause del brusco arresto quando si verifichi; per questo gli occorre la Scuola professionale, che educhi la mente e la sua mano. Oggi non è più comprensibile un operaio qualificato, che non conosca il disegno e non abbia cognizioni tecniche”.