Incaricato di diffondere l’insurrezione in tutta l’Alta Valle del Tevere, ma assorbito dalla complessa situazione di Città di Castello, il patriota perugino Reggiani nominò commissario per San Giustino il tifernate Pietro Dini. Questi, il 22 febbraio, formò il Comitato Provvisorio locale con Giuseppe Meocci e GioBatta Agatoni, sangiustinesi, Bernardino Polidori di Lama e Franco Mori di Cospaia: personalità che davano le più piene garanzie “per senno, e per intensissimo attaccamento alla Causa”. All’organizzazione della Guardia Nazionale avrebbe pensato il comandante di quella tifernate, Luigi Bufalini. Il podestà Apollinare Collesi fu nominato giusdicente locale.
Si tolse prontamente lo stemma pontificio, dando disposizioni per innalzare nel palazzo municipale la bandiera tricolore italiana. Ma la cosa andò per le lunghe, perché in quel territorio, prevalentemente rurale, la popolazione non mostrò affatto di gradire il cambiamento rivoluzionario. A quell’epoca era in costruzione la strada che da San Giustino valica Bocca Trabaria per collegare l’Alta Valle del Tevere e la Valle del Metauro. Proprio “i forastieri e lavoranti della nuova strada” – gente evidentemente risvegliata agli ideali di libertà e di italianità – presero l’iniziativa perché il tricolore sventolasse anche in quel lembo di confine tra Stato della Chiesa e Granducato di Toscana. Senza sentire ragioni, l’11 marzo lo portarono in corteo per il paese e lo inalberarono nella piazza, di fronte al municipio. Il gesto dovette suscitare parecchio malumore, se qualche giorno dopo – nottetempo – furono affissi sui muri dei fogli di “satira” contro chi aveva innalzato il tricolore. Intervenne subito il Comitato di Città di Castello, che ordinò perentoriamente di reprimere “i seminatori e fomentatori di discordia” e rammentò l’ordine nazionale “d’indossare la Coccarda tricolore, onde togliere qualunque motivo di disunione e di distinzione”.
Il governatore di San Giustino, Apollinare Collesi, si precipitò dal vescovo tifernate Muzi insieme al segretario comunale, “protestandosi del tutto contrario all’avvenuto politico cambiamento” e assicurando “che solo per ovviare a maggiori inconvenienti permise, che fosse collocata la Bandiera ad una delle fenestre del Comune”.
Le polemiche per i fatti dell’11 marzo sarebbero continuate anche dopo il ripristino del governo pontificio, con il tentativo di identificare e punire “gli autori della processione ed inalberamento della Bandiera Tricolore sotto il cessato infame Governo rivoluzionario”. Solo che allora, invertitesi le parti, furono i filo-rivoluzionari ad affiggere “satiri scritti”. In uno di essi si leggeva: “O Preti infami! or ora ritorneran quei momenti felici in cui potremo levarci qualche capriccio delle teste! Il primo sarà quello di levarvi i c….! o morire, o trionfar! questa canaglia vogliamo stirpar. Evviva la Libertà! accidenti alla religione!”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).