La severa censura alla quale doveva sottostare la stampa durante la guerra impedì che i periodici locali riferissero della manifestazione di protesta dell’aprile 1916, così come dell’agitazione, ben più vasta e drammatica, dell’aprile dell’anno successivo. Gli unici documenti che permettono ad oggi di ricostruire quest’ultima vicenda sono dunque gli atti del processo che ne derivò e i verbali del consiglio comunale di San Giustino.
Nel 1917 stava crescendo il malcontento tra i ceti popolari per le difficili condizioni di vita, rese ancor più ardue dal razionamento e dalla rarefazione dei beni di prima necessità. Il Comune di San Giustino il 22 aprile di quell’anno fece affiggere un manifesto che annunciava la riduzione a 13 chilogrammi per persona del quantitativo mensile di grano da distribuire. Quel manifesto suscitò l’ira di una popolazione esasperata dai problemi annonari e dal protrarsi della guerra.
Ciò che avvenne il giorno dell’affissione del manifesto e il successivo 23 aprile lo descrivono gli atti processuali:
“Nella mattina di domenica 22 aprile 1917, un migliaio di persone, donne in grandissima maggioranza, provenienti dalle frazioni di Celalba, Selci, Lama e Pitigliano si riunivamo nella piazza del municipio di San Giustino, dandosi a gridare: ‘Abbasso la guerra! Vogliamo l’abolizione dei sussidi e il ritorno dei nostri parenti dal fronte!’.
Gran parte entrò nei locali del palazzo comunale, mentre l’altra rimasta fuori continuò a tumultuare, trascendendo ad atti teppistici e vandalici mediante lancio di sassi contro le finestre del Municipio e dell’attiguo ufficio postale, rompendo oltre cinquanta vetri e cagionando un danno di oltre lire duecento.
Sempre più ingrossando, l’orda si diè poscia a percorrere le vie del paese lanciando sassi contro le case dei cittadini ritenuti fautori della guerra, rompendo infissi, vetri e perfino oggetti nell’interno delle abitazioni, cagionando danni notevolissimi, finché si rivolsero alla casa parrocchiale dell’arciprete ove ruppero i vetri e cagionarono altri danni del valore di lire duecento. Finalmente dopo quattro ore (dalle 10 alle 14) di tumulto, le dimostranti si sciolsero.
Ma la mattina successiva, lunedì 23 aprile 1917, un centinaio di donne riunitesi nella frazione Lama, tentarono d’invadere la fabbrica di proiettili ivi condotta da Dinarelli Francesco, ma non vi riuscivano per il pronto intervento di un plotone di truppa, e poterono solamente lanciare sassi contro i vetri della officina stessa.
Di là si diressero alla frazione Selci, e cresciute di numero fino a oltrepassare il migliaio, si riversarono nuovamente nella piazza del Municipio di San Giustino, tentando di invadere la casa comunale ma neppur riuscendovi perché respinte dalla truppa, che dovette sostenere continue colluttazioni con le dimostranti che [illeggibile] emettendo le solite grida.
Nel pomeriggio alcune di queste forsennate, spalleggiate dalla folla, costrinsero con violenza e minacce le persone più ragguardevoli del paese a recarsi nel palazzo comunale per firmare un memoriale, dettato da una di esse, contrario alla guerra, e finalmente, alle ore 17, si sciolsero”.
La lettura delle posizioni processuali di alcune imputate conferma lo sviluppo burrascoso dell’agitazione e rivela ulteriori e importanti particolari. Ben otto donne si resero colpevoli di violenza privata a danno di notabili e sacerdoti locali, trascinati in Municipio e costretti a firmare il memoriale contro la guerra. Furono il sindaco Battaglini, il possidente Giuseppe Roti (“fu preso a braccio, mentre la Bardossi Maddalena gridava contro di lui: ‘ammazzalo! ammazzalo!’ e gli tirò anche in calcio senza colpirlo”), il veterinario Francesco Gonnelli, Filippo Cocchi, l’arciprete don Eugenio Castellari e il cappellano don Ulisse Cristini, coperto di insulti d’ogni genere e minacciato con la frase: “Oggi la firma, domani la festa! perché voialtri signori e preti siete stati quelli che avete voluto la guerra!”. Inoltre l’ufficiale di stato civile Sebastiano Nunzi fu obbligato da Maria Domenica Marinelli a dettare il memoriale allo scritturale comunale Natale Chialli, che poi dovette ricopiarlo in carta bollata e spedirlo al prefetto.
Il pomeriggio del secondo giorno di tumulti, lunedì 23 aprile, entrò in scena Luigi Bosi, autorevole esponente socialista di Sansepolcro e consigliere comunale di San Giustino [1]. Il segretario del consiglio comunale così verbalizzò la sua ricostruzione dei fatti:
“Pervenutagli notizia della dimostrazione, e ciò avvenne soltanto il giorno 23, [Bosi] si portò subito in San Giustino; maltrattato al suo giungere in paese e sospinto in Municipio, ebbe dalle autorità quivi raccolte la versione esatta degli avvenimenti; insistentemente invitato a parlare dallo stesso Vice-Commissario Sig. Argenti e ritenuto di non potere farlo nella pubblica piazza in osservanza al divieto relativo, parlò nel locale Sala-Teatro, dove le dimostranti convennero solo in parte, ed esitando per il non celato timore di essere attratte ad arte, ed arrestate, invitando le convenute a tornare calme, e a desistere dalla dimostrazione, che dimostrò vana, e della quale deplorò gli eccessi. Ebbe l’impressione di essere riuscito all’intento” [2].
Tutt’altro che estremista, dotato di spiccata intelligenza politica, Luigi Bosi sapeva che, proprio per il carattere spontaneo e violento, l’agitazione era destinata al fallimento. Per questo fece di tutto per “ricondurre sulla via del buonsenso e della ragione la folla che” – ammise – “facilmente erra e trascende” [3].
Al processo, il racconto di Bosi convinse i magistrati. Nessuno poté accusarlo di aver soffiato sul fuoco della protesta, iniziata peraltro il giorno precedente il suo arrivo. Inoltre due testi confermarono che dovette fronteggiare anche la preconcetta ostilità di molte donne: “[…] se una parte dei dimostranti lo applaudiva, un’altra imprecava contro di lui, dicendo che era un guerrafondaio d’accordo coi signori!”. Infine risultò vero che fu lo stesso sindaco Battaglini, con il consenso del vice-commissario di pubblica sicurezza Argenti, a pregare Bosi di “rivolgere qualche parola pacificatrice perché la sommossa cessasse” [4].
Il coraggio e il senso civico del socialista Luigi Bosi fecero esplodere le contraddizioni dell’amministrazione moderata che reggeva il comune sangiustinese. Il telegramma inviato lo stesso 23 aprile dal sindaco Battaglini al prefetto è inequivocabile:
“[…] impotente fronteggiare situazione gravissima Comune preda sobillatori istiganti vandalismi – aggressioni – abbandonato assessori e consiglieri – rassegno mie dimissioni pregando inviare subito Commissario” [5].
Qualche settimana dopo, in consiglio comunale, il sindaco Battaglini avrebbe confermato di essersi sentito abbandonato dai colleghi e non protetto dalla forza pubblica, intervenuta tardivamente. Rese omaggio a Bosi, il solo che in quella circostanza gli fosse stato vicino (“solo fra i rappresentanti comunali, intese la opportunità ed il dovere di portarsi nella sede municipale e fra i dimostranti a fare opera di persuasione e pacificazione”). Bosi però contestò la sua insinuazione che alla base della protesta ci fosse stata l’opera di “sobillatori istiganti vandalismi”; rammentò che tutto era iniziato per “un manifesto inopportuno, quale indubbiamente fu quello con cui decretavasi la riduzione a 13 chilogrammi per persona e per mese del quantitativo di grano da somministrarsi alla popolazione”, e definì la manifestazione “spontanea esplosione di uno stato d’animo venuto lentamente creandosi attraverso i sacrifici innumerevoli, in denaro ed in sangue imposto dalla guerra” [6].
Già quei primi due giorni di tumulti rivelano che stava divampando un episodio di protesta di considerevole importanza nella storia della valle. Interessava l’intero territorio comunale di San Giustino, coinvolgeva – e ciò era senza precedenti localmente – quasi esclusivamente le donne, ne portava in piazza una moltitudine ingente, aveva chiari caratteri di condanna della guerra e si caratterizzava per l’impeto e gli episodi di violenza.
E non finì lì. Leggiamo ancora negli atti processuali:
“Senonché anche la mattina di poi, martedì 24 aprile 1917, un gruppo di circa duecento persone, emettendo grida di ‘Abbasso la guerra! Fuori i preti!’, si recò avanti la casa di abitazione dell’arciprete di Colle Plinio, e dopo averne scassinata la porta d’ingresso, la invasero, tutto devastando, ed asportando anche un cappello da prete sul quale fu alzato un cartello colla dicitura: ‘questo è dell’arciprete di Colle! oggi il cappello, domani la testa!’ e posto poi in capo alla imputata Carobbi Maria che lo tenne fino al momento del suo arresto. […]
“I dimostranti, ingrossati fino a circa duemila, tornarono poscia nella piazza di San Giustino, dove giunsero sul mezzogiorno, ma presto si sciolsero previa intimazione nelle forme di legge ed i regolamentari tre squilli di tromba, col conseguente arresto di coloro che si mostrarono più riottosi” [7].
Riportato l’ordine pubblico nel territorio di Sangiustino, iniziarono le indagini per identificare i responsabili dei reati commessi. Le dieci donne arrestate rimasero in prigione fino al 13 giugno, data di scadenza dei termini legali di detenzione preventiva. Furono poi rinviate a giudizio insieme ad altri 21 imputati. Tra di essi figurava pure Luigi Bosi, denunciato il 31 maggio dal vice-commissario Argenti e “chiamato a rispondere di correità in tutti i reati attribuiti agli altri trenta imputati per averli determinati a commetterli” [8].
[1] Luigi Bosi aveva allora 43 anni. Dottore in agraria, aveva militato inizialmente nello schieramento conservatore, per poi approdare, nel 1901, nel partito socialista. Entrò nel consiglio comunale di Sansepolcro nell’agosto 1902 e fu sindaco della città toscana dal 1910 al 1912. Nel 1919 sarebbe stato eletto deputato per il collegio Arezzo-Siena-Grosseto. Cfr. anche R. Polverini, Aspetti e momenti della Vita della Loggia Alberto Mario di Sansepolcro (1896-1912), s.n.e., 1996.
[2] ASCSG, Verbale del consiglio comunale cit.
[3] Ibidem.
[4] ASP, Tribunale di Perugia, Sentenza n. 215, 8 dicembre 1917.
[5] Ibidem.
[6] ASCSG, Verbale del consiglio comunale cit. Battaglini chiarì che con quei termini “intendeva unicamente riferirsi a persone che facevano nelle pubbliche vie raccolte di sassi e li offrivano alle dimostranti affinché potessero compiere i loro atti vandalici”.
[7] ASP, Tribunale di Perugia, Sentenza n. 215 cit.
[8] Ibidem.
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