I seggiolai – artigiani di antica tradizione nomade – provenivano quasi tutti dalle zone montuose tra il Trentino, il Bellunese e il Friuli orientale. Lasciavano la loro terra in inverno, quando l’attività agricola era ferma. Soggiornavano dove trovavano, rimanendo a pensione presso privati, che gli offrivano la possibilità di dedicarsi al loro mestiere, o andando “a ópra”, ospitati cioè nelle case dei contadini che ne richiedevano la prestazione in cambio di vitto e alloggio. Non di rado, però, dovevano adattarsi a sistemazioni più modeste; infatti, d’inverno capitava loro di dover dormire nelle stalle, d’estate nei capanni. Erano lavoratori di grande dignità, abituati nel loro girovagare ad adattarsi a ogni ambiente e a saper trattare le persone.
Appena i “segiolèri” giungevano nelle nostre campagne, i contadini gli fornivano i “piòzzi” delle seggiole da costruire, già preparati in estate affinché fossero adeguatamente seccati al loro arrivo. Poi andavano personalmente a tagliare il legno necessario, in genere ciliegio selvatico e fresco, castagno o acacia, materiale resistente e dalla gradevole colorazione. Li individuava per tempo il contadino stesso, che si offriva anche di aiutare l’ospite nelle varie operazioni di sua competenza.
Il seggiolaio fabbricava tutta la struttura, collegandovi a incastro i piozzi che trovava pronti. Poi procedeva con l’impagliatura. In genere era lo stesso “impaiacareghe” – così lo chiamavano nella terra d’origine – a portare i fasci d’erba palustre adatta all’impagliatura. Raccoglieva e seccava al sole questa “schianza”, suddividendola a seconda della qualità e del colore. La trasportava su di uno zaino a seggiola. Per i manufatti rustici usava paglia più spessa; più sottile invece per quelli di maggiore raffinatezza.
Questi stagionali nomadi restavano in un podere solo i giorni necessari a completare il lavoro, poi si trasferivano. Un buon “segiolèro” riusciva da solo a costruire circa tre o quattro seggiole al giorno. Per impagliarne una impiegava un’oretta. Lavorava a una velocità impressionante e i suoi prodotti duravano a lungo. Vi erano diversi generi di impagliatura: a croce – il più resistente -, a scacchi, a fascia, a spina. Di attrezzi ne utilizzava pochi: varie asce e accette, le “rasoiètte” (lame con manici per affilare) e gli arnesi per forare il legno: trivelle, “guàlatri” o “manaróle”.
Naturalmente anche lavoratori locali si dedicavano all’impagliatura delle seggiole. Andavano lungo i “patòlli” dei fiumi a raccogliere la “schianza” o “l giònco”, che lasciavano seccare prima dell’uso. Nel 1831 la “schianzatura” di una di esse costava 8 baiocchi; nel 1878 60 centesimi.
I seggiolai arrivavano anche nelle zone più impervie, dove i contadini erano per lo più abituati a fare da sé. Ma i contadini di montagna, per quanto poveri, impietositi dai disagi di questi ambulanti, talvolta gli facevano impagliare qualche seggiola.