La facciata di Villa Santinelli dopo la battaglia.
Manifesto propagandistico della Repubblica Sociale Italiana.

I processi

L’istruttoria per accertare responsabilità penali negli avvenimenti di Villa Santinelli fu avviata con una certa prontezza nell’immediato dopoguerra. Di pari passo con la ricostruzione del Paese, le forze politiche della rinata democrazia affrontarono la questione della rimozione dai loro incarichi di persone coinvolte con il passato regime e dei processi ai fascisti che avevano commesso gravi crimini.
Come si evince dalla documentazione processuale, già entro il febbraio del 1945 l’istruttoria sulle fucilazioni di Villa Santinelli aveva acquisito la relazione del comandante della stazione dei carabinieri di Lugnano e le testimonianze di Sante Santinelli, del partigiano sopravvissuto Lino Mercati, dell’ufficiale della GNR Alvaro Sarteanesi e di alcuni militi, tra cui Amleto Bambini e Ubaldo Narducci, autori di una denuncia molto circostanziata. Ulteriori testimonianze si aggiunsero tra il giugno e il settembre 1945: oltre ad altri militi presenti all’assedio della villa, fu interrogato l’ufficiale della GNR Pietro Gambuli.
L’inchiesta rischiava di essere pesantemente condizionata dalla tesi difensiva sostenuta dagli imputati fascisti. Ad agosto, il giudice istruttore del tribunale di Perugia Sergio Gallo inviò la seguente richiesta ai carabinieri di Città di Castello: “Poiché pare, come assumono gli imputati, che quei giovani non siano stati dei patrioti, ma dei volgari delinquenti rapinatori, pregasi svolgere accurate indagini con urgenza per assodare tale circostanza, interrogando principalmente i componenti la famiglia Santinelli, uno dei quali, pare, inviò un biglietto in quella circostanza chiedendo aiuto e in seguito a ciò le autorità fasciste dell’epoca intervennero”. Qualche giorno dopo il presidente del Comitato di Liberazione di Città di Castello, Gaetano Fornaci, mise in guardia i CLN di Sansepolcro, Arezzo e Firenze: “Risulta a questo Comitato che con una certa probabilità la difesa dei responsabili dell’eccidio, contro i quali si sta celebrando presso la Procura del Regno di Perugia una regolare istruttoria, tenterà di avallare l’opinione che i nove trucidati fossero dei delinquenti comuni e che quindi l’operazione della GNR non uscisse dalla normale categoria delle operazioni di polizia”. Fornaci sollecitò i CLN a svolgere “accurate indagini”, “per sventare questa manovra” e “accertare la reale attività patriottica della formazione”.
Il procedimento penale, come avrebbe ammesso il magistrato nella sentenza, ebbe “origine frammentaria”, perché costituito “dalla connessione di numerosi procedimenti iniziati, e talora in parte sviluppati, da diverse autorità giudiziarie contro singoli imputati e contro gruppi di essi”. Accorpò alla vicenda di Villa Santinelli altri fatti di sangue avvenuti nel territorio di Città di Castello e Pietralunga nel maggio 1944: le fucilazioni di Venanzio Gabriotti e di quattro giovani catturati alla macchia presso la località tifernate di Montemaggiore.
Nel contorto iter processuale, gli atti vennero prima trasmessi per competenza al Tribunale Militare Territoriale di Firenze (marzo-ottobre 1945), poi rimessi alla Corte di Assise di Perugia, infine (marzo-maggio 1946) ritrasmessi al tribunale militare fiorentino.
Per Villa Santinelli andarono a processo 32 imputati. Su 9 di essi, tra cui Pietro Gambuli, si espresse la Corte di Assise di Perugia: ne ordinò la scarcerazione l’8 settembre 1947 per essere “venuti meno a carico dei medesimi gli indizi di reità”. Fu prosciolto anticipatamente anche il comandante del presidio della GNR di Città di Castello, Dorando Pietro Brighigna. Vennero scorporati altri tre casi: il principale riguardava l’ex capo della Provincia Armando Rocchi, processato a Bologna. Inoltre l’indagine non riuscì ad appurare l’identità certa di 4 imputati (Gino Bizzarri, Emilio o Emidio Fratini, Alfonso Romito ed Edoardo Scotti). Infine furono 5 coloro che, colpiti da mandato di cattura, si resero latitanti (Armando Gradassi, Giuseppe Orlandini, Valerio Pievaioli, Bruno Ronconi e Vittorio Rossi); sarebbero stati comunque assolti per insufficienza di prove.
In merito ai rimanenti 10 imputati, il giudice affermò che non sussistevano “prove sufficienti ed univoche” a sostegno dell’accusa di omicidio. E aggiunse: “Infatti, nonostante la laboriosa istruttoria, nessuna prova l’inquirente è riuscito a raccogliere. Né il giudice ritiene possa costituire prova, o almeno principio di prova, il generico, vago e pericoloso, ‘si dice’ o ‘raccontano’ o ‘ho sentito dire’ o ‘corre la voce’ o la generale opinione”. Già nel corso dell’istruttoria si era provveduto alla scarcerazione degli imputati, “essendo venuti meno gli indizi circa la partecipazione degli imputati in parola ai reati di omicidio”.
Il giudice dichiarò inoltre che era indubbia la colpevolezza degli imputati per aver agevolato “le operazioni militari dell’invasore”, per aver fatto “attiva e continua opera di persuasione per ottenere l’arruolamento di cittadini italiani nelle file militari del sedicente governo repubblicano ed indurre i medesimi a combattere per l’ideologia nazista e la vittoria tedesca”, e per aver svolto “opera febbrile e indefessa per ostacolare o prevenire ancora prima di combatterla in campo aperto l’organizzazione e l’attività partigiana”. Però tali reati erano stati estinti per amnistia con l’articolo 3 del DLL del 22 giugno 1946. Furono dunque prosciolti “dai reati di omicidi pluriaggravati per non aver commesso i fatti e dai reati di aiuto al nemico perché estinti per amnistia” Mariano Ardone, Nello Boninsegni, Torello Bocciolesi, Remo Cancellieri, Piermarino Gambacurta, Getulio Rosati, Lorenzo Rosati, Franco Rossetti, Andrea Seripa e Alvaro Sarteanesi
L’avventura giudiziaria di Armando Rocchi si rivelò ancor più lunga, complessa e, per l’ex capo della Provincia, benevola. Il caso venne affrontato dalla Corte di Assise di Bologna. Il processo prese in esame ben 29 capi di accusa. Due di essi contestavano a Rocchi la partecipazione al “rastrellamento diretto alla cattura di alcuni patrioti asserragliati nella Villa Santinelli” e l’aver “cagionato la morte di 9 patrioti per il motivo abbietto di indurre cittadini italiani a prendere le armi contro la Patria”. Nella sua sentenza, emessa il 29 agosto 1946, il giudice Luigi Chiarini non ebbe dubbi sul ruolo chiave di Rocchi nella vicenda: “Ritiene pertanto la corte che non solo debba farsi risalire al Rocchi, sia pure in concorso con altri, la responsabilità del rastrellamento, ma che debba costui rispondere anche delle tragiche conseguenze del medesimo, che, per essere stato effettuato contro un nucleo di partigiani, aveva tutte le caratteristiche di un’operazione bellica”. Il giudice, pur riconoscendo all’imputato “un passato veramente onorevole e brillante”, sottolineò la “crudeltà” da lui dimostrata in alcuni fatti per i quali veniva processato. Lo condannò quindi a 30 anni di reclusione, condonandogliene 10.
Il ricorso di Rocchi in Cassazione portò nel febbraio 1946 all’annullamento della sentenza e al rinvio degli atti alla Corte di Assise di Roma. Nel novembre 1948 essa confermò la condanna a 30 anni di reclusione. Dopo un nuovo ricorso in Cassazione, gli atti del processo tornarono nel novembre 1949 a Bologna. L’anno successivo l’imputato poté beneficiare della libertà condizionale. Nel 1953 gli furono condonati 20 anni di pena; nel 1955 altri 2; poi, nel novembre 1959 venne pronunciata in suo favore la declaratoria di amnistia. Nell’ottobre 1961, infine, la Corte d’Appello di Roma sancì la sua riabilitazione civile.

 

Testo privo di note tratto da Alvaro Tacchini, La battaglia di Villa Santinelli e la fucilazione dei partigiani, Quaderno n. 12 dell’Istituto di Storia Politica e Sociale “Venanzio Gabriotti”, Città di Castello 2017.