Tra il 7 e l’11 maggio 1944 un rastrellamento nazi-fascista costò la vita a 21 persone tra Pietralunga, Umbertide e Città di Castello. È un episodio di quel rastrellamento che voglio raccontare, con le parole stesse di alcuni protagonisti. Sono testimonianze rilasciate durante il processo celebrato nel dopoguerra presso il Tribunale Militare di Firenze per i fatti di sangue avvenuti nell’Alto Tevere umbro dal marzo al maggio 1944.
Il rastrellamento si poneva l’obbiettivo di stanare e annientare le bande partigiane della Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino” e di catturare giovani renitenti alla leva e al servizio obbligatorio del lavoro nascosti su quelle alture. La zona fu circondata dai nazi-fascisti, che vi penetrarono da più punti. La mattina del 9 maggio si mosse da Città di Castello la II Compagnia di ordine pubblico della Guardia Nazionale Repubblicana. Giunta a piazza Garibaldi, si divise in due tronconi: il primo procedette verso Fraccano, portando con sé Venanzio Gabriotti, che fu fucilato per strada; il secondo puntò in direzione di Montemaggiore. Uno dei militi era il barbiere Agostino Tavernelli: “In ognuno dei due reparti vi erano delle S.S. italiane comandate da ufficiali tedeschi. Ogni reparto era così composto di circa 150 SS e circa 100 della G.N.R.”.
La famiglia di Pasquale Guerrini era sfollata a Montemaggiore, dove aveva dei parenti. I suoi figli Fulvio (23 anni) e Dario (20 anni) erano nascosti lassù, per non rispondere ai bandi del fascismo repubblicano, insieme al cugino Giulio Guerrini (19 anni), a Candido Bellucci (20 anni) e al contadino Adolfo Bartolini, anche lui ventenne. Raccontò Pasquale: “Il 9 maggio mi trovavo a Città di Castello e si è sparsa quel giorno voce che vi sarebbe stato un rastrellamento verso la località dove stava la mia famiglia. La sera, rientrato in casa, seppi da mia moglie che i miei figli maschi Dario e Fulvio si erano allontanati, avendo avuto sentore del rastrellamento”. Fulvio Guerrini si nascose da solo nei boschi e riuscì a sfuggire alle ricerche. Gli altri, insieme a Alfredo (o Eliseo) Martinelli e Ciro Renghi, andarono verso Candeggio, che ritenevano zona più sicura, perché già rastrellata. Ma i nazi-fascisti li sorpresero e li arrestarono a Casenuove di Perrubbio, “presso il fonte di Caifranceschi”.
Le fasi dell’arresto e dei successivi interrogatori furono riferite dal contadino apecchiese Alfredo Martinelli: “Ad un certo punto sentimmo un fuoco di fucileria e vidi che da basso vi era una squadra di S.S. italiane comandata da un maresciallo tedesco e di sopra i militi al comando del ten. [Edoardo] Scotti. Ci convenne alzare le mani ed arrenderci. Fummo tutti subito catturati dal ten. Scotti e poi condotti dal maresciallo tedesco con la sua squadra alla fattoria di Montemaggiore, dove fummo chiusi in un vano terreno. Poi ad uno ad uno fummo interrogati da un tenente tedesco e da altro tedesco vestito da tedesco che parlava l’italiano e il tedesco. A me chiesero perché mi trovavo alla macchia. Vollero vedere i documenti e minacciarono di fucilarmi se non avessi rivelato dove erano i patrioti. Io dissi che non ero mai stato coi patrioti e non sapevo nulla. I quattro che poi furono fucilati ebbero rivolte domande analoghe alle mie, secondo quanto mi dissero, e risposero che non sapevano nulla e non erano mai stati nelle formazioni partigiane”.
Verso le 10.30 di quel 10 maggio, a Montemaggiore, Pasquale Guerrini vide con angoscia i nazi-fascisti condurre come prigionieri i sei giovani, tra cui suo figlio. Subito i famigliari i mobilitarono per salvare loro la vita: “Durante il giorno mia moglie e mio cugino Giuseppe, padre di Guerrini Giulio, Bartolini Egisto, Renghi Maria, […], Bartolini Adelfa (moglie di Guerrini Giuseppe) si recarono al comando e parlarono con gli ufficiali che ho qui nominato, in particolare con il ten. [Hans] Tattoni, sulla sorte dei famigliari arrestati. Il Tattoni parlando che si trattava di una banda disse che avrebbe fatto fucilare tutti e sei i giovani”.
L’incontro con l’ufficiale delle S.S. Hans Tattoni (talvolta scritto Tatoni), un altoatesino che parlava italiano, venne descritto da Giuseppe Guerrini: “Io parlai con il tenente Tattoni e questi prima mi disse che tutti i catturati come partigiani dovevano essere fucilati e poi, in seguito ai chiarimenti dati da me e da Bartolini Egisto e dagli altri presenti, ci disse che i catturati venivano portati in Germania o sarebbero stati impiegati per i rastrellamenti. Il Tattoni mi disse di fornire a mio figlio un paio di scarpe più pesanti e viveri per tre giorni e di cambiargli i pantaloni. Io rimasi fiducioso in questa promessa, tanto più che il maresciallo tedesco mi disse che prima di partire avrebbe fatto stare mio figlio per tre ore in casa mia”.
La realtà fu ben diversa. La mattina dell’11 maggio una squadra di militi fascisti, “comandata da una persona vestita con la divisa di sottufficiale tedesco”, lasciò Montemaggiore portando con sé Dario Guerrini. Sembrava tranquillo: disse alla sorella Vera che avrebbe fatto da guida ai militi. Lo ribadì ad Amedeo Giannini: “Il povero Dario mi disse: ‘Mi portano a insegnare la strada per andare a Cai Franceschi; da dove devo passare?’ Io gli risposi che poteva passare sia per Poleto che per la strada di sotto. Così fu che il poveretto si incamminò verso il suo destino scortato da una dozzina di nazi-fascisti”.
Contemporaneamente il resto del reparto, al comando del tenente napoletano Edoardo Scotti e di Hans Tattoni, si incamminò verso Castelguelfo. Uno dei militi era il meccanico tifernate Remo Cancellieri: “Si partì con i tre arrestati incamminandoci verso la località di Castelguelfo. Giunta in vista di Castelguelfo, la compagnia si fermò e il ten. Tatoni domandò a dei coloni ove era il cimitero e ove circolavano bande di partigiani. A questo punto la compagnia si divise in vari gruppi. Uno si diresse verso il cimitero con i tre arrestati; gli altri furono divisi nelle campagne circostanti allo scopo di rastrellare eventuali partigiani che ivi si fossero trovati, e ritrovarsi poi tutti verso la locale chiesa”. A dire di Cancellieri, quando seppe che i tre giovani sarebbero stati fucilati, tentò di convincere Tattoni a risparmiar loro la vita. Ma – affermò – “ebbi la testuale risposta: ‘La Germania è cinque anni che è in guerra; se non si va con l’esempio…”.
Cancellieri fu l’ultima persona a parlare con i condannati, ancora ignari di quanto stava per accadere. Questa la sua testimonianza: “I tre partigiani non sapevano della loro sorte. Mentre perdurava la sosta, confuso fra le compagnie radunate, potei avvicinare il Guerrini Giulio. Gli feci del coraggio e mi domandò: ‘Mi fucileranno?’. Risposi: ‘Non credo’. Continuò: ‘Perché non mi hanno fucilato a Montemaggiore? Almeno ero vicino ai miei. Questo mi succede per dar retta ad altri’. ‘Con chi sei fidanzato?’ Rispose: ‘Con una certa […] di Castello’. Fece una pausa disperandosi ed esclamò: ‘Se ho salva la pelle mando mille lire a Sant’Antonio’. Gli risposi io: ‘Abbi fiducia in Dio, e se salvi la pelle Sant’Antonio se ne merita non mille, ma diecimila di lire’. E poi lo lasciai per non farmi vedere parlare, e non lo rividi più”.
Anche Agostino Tavernelli faceva parte di quella compagnia. Così raccontò: “Ad un certo punto il plotone delle S.S. continuò la strada verso il cimitero, mentre noi, una trentina circa, rimanemmo indietro. Circa un quarto d’ora più tardi sentimmo una scarica di moschetto e poco dopo detto plotone di esecuzione tornò indietro ed unitosi nuovamente a noi ci incamminammo verso la chiesa che si trovava nelle vicinanze e verso l’imbrunire tornammo verso Montemaggiore”. Il colono Pasquale Conti riferì al processo una confidenza che gli fece Tavernelli. Prima di essere fucilato, Giulio Guerrini avrebbe detto a uno dei fascisti che stavano per fucilarlo: “Tu, Topolino, hai il coraggio di ammazzarmi mentre siamo andati a scuola assieme?”
Com’era loro consuetudine, i nazi-fascisti lasciarono i corpi dei tre fucilati sul posto, dove rimasero alcuni giorni, coperti dalle loro giacche.
Alcuni particolari di quanto successe a Dario Guerrini li riferì la famiglia Facchini, che viveva a Babiano, presso Caizingari. La squadra di militi che portava con sé Dario sostò dai Facchini, chiese da bere e si fece portare in cantina. Appena vi entrarono, uno di essi sparò alle botti, forandole. Avrebbe raccontato Facchini: “Bevvero quanto ne volevano, poi lasciarono che il vino si disperdesse per terra. Assistette alla scena anche il Guerrini. Chiesi di far bere anche a lui. Un soldato rispose che di lì a mezz’ora lui sarebbe morto. Poi lo portarono sul colle e lo fucilarono”. Di lì a poco la squadra tornò a Babiano e chiese di far seppellire la salma. I Facchini chiamarono don Antonio Brodi, che, oltre a fare il parroco, era un buon falegname e si prestava a costruire le bare per i parrocchiani.
La salma di Guerrini fu riconosciuta da una diciassettenne pietralunghese, Lina Benedetti, che riferì: “Mi sono recata dai suoi genitori per avvisarli. Dissi a questi che nella nostra parrocchia vi era un morto che rassomigliava a loro figlio. Infatti venne sul posto il Guerrini Pasquale, che riconobbe il cadavere per quello del figlio”.
I famigliari dei giovani fucilati a Castelguelfo vennero a sapere della loro uccisione il 12 maggio. Ecco le loro testimonianze. Giuseppe Guerrini: “Il 12 maggio io, visto che il ragazzo non tornava, mi recai al comando dal tenente Tattoni ma non riuscii a sapere nulla. Egli mi disse che fra due giorni avrei saputo sul manifesto dove era mio figlio. Il Tattoni, quando i militi andarono via da Montemaggiore, venne in casa mia col Faro [il ten. Filippo Faro, comandante della compagnia] e disse che mio figlio era stato fucilato a Castelguelfo, perché era risultato che era stato per quattro giorni con i partigiani […]”. E il contadino Egisto Bartolini, padre di Adolfo: “Quella sera io, ignaro dell’accaduto, mi recai al comando per portare il vitto a mio figlio e lì il ten. Faro disse che quella sera mio figlio non sarebbe ritornato. Il 12 maggio a sera un maresciallo mi disse che mio figlio era stato fucilato perché ritenuto un partigiano. Io negai ciò ma detto maresciallo, che era italiano, mi disse che se negavo mi avrebbe fucilato”.
Gli altri due rastrellati, Renghi e Martinelli, vennero rilasciati. Raccontò Martinelli: “Il giorno 12 io e il Renghi fummo chiamati al comando. Là il ten. Scotti ed altri due ufficiali ci invitarono a dire se il Bartolini, il Guerrini, il Bellucci, dei quali ci comunicarono la morte, erano o no partigiani. Noi due risposimo negativamente. Poi fummo rimessi in libertà”. Per aver salva la vita, Martinelli dovette accettare di arruolarsi nella milizia fascista.
Il processo istruito nel dopoguerra individuò in Edoardo Scotti e Hans Tattoni i responsabili della morte dei quattro giovani. Ma non valse a nulla: infatti non furono rintracciati e il tribunale dichiarò il “non doversi procedere” contro di essi, “perché rimasti ignoti”.
Articolo di Alvaro Tacchini pubblicato ne “L’altrapagina”, maggio 2015. Testo coperto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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