I cambiamenti politici e istituzionali prodotti dall’Unificazione italiana non scossero subito le acque stagnanti dell’artigianato del ferro. A Leomazzi e Pennacchi si affiancarono le botteghe di Giacomo Ricci e di Guglielmo Vincenti: quest’ultima, destinata a una vita più che centenaria, avrebbe acquisito, per prima in tale settore, una dimensione di vera e propria azienda, prefigurando nuovi orizzonti produttivi e più incoraggianti prospettive di sviluppo.
L’origine dell’impresa di Guglielmo Vincenti (1843-1922) risale al 1860, come lo stesso fondatore fece scrivere in alcuni annunci pubblicitari. Proprio allora l’ancor giovane fabbro fu arruolato nella Guardia Nazionale e impiegato come capo-picchetto in azioni di perlustrazione. Vincenti era figlio di Bernardo e di Rosalinda Battistelli. Apparteneva a una famiglia numerosa e benestante del sobborgo di Rignaldello, proprietaria anche di un’avviata tintoria e di un mulino. Tutte le attività produttive dei Vincenti finirono con il far capo a Guglielmo, che divenne una figura di spicco dell’imprenditoria tifernate della seconda metà dell’Ottocento, certamente atipica per l’ampiezza degli interessi. Non solo incrementò l’officina meccanica, ma valorizzò ulteriormente la tintoria, trasformandola in un lanificio a vapore, dove si esercitavano anche filatura e tessitura. L’azienda godeva di considerazione in Umbria e dava lavoro a una quindicina di operai. A testimonianza dell’acquisita solidità economica, Vincenti compare già nel 1872 nelle liste elettorali della Camera di Commercio, dove sarebbe rimasto a lungo e ininterrottamente.
Quanto alla sua officina, sono documentate commesse da parte della Cattedrale sin dal 1874. Da allora avrebbe goduto dell’incondizionata fiducia degli amministratori ecclesiastici insieme all’altro fabbro Giovan Battista Bargiacchi, che mantenne uno stabile rapporto di lavoro con il Seminario. Di fatto, Vincenti e Bargiacchi si suddivisero i due principali committenti del mondo cattolico, a lungo in precedenza serviti da Pennacchi e Leomazzi.
Con l’uscita di scena di costoro, Vincenti si impose però come il fabbro di maggior prestigio, dando dimostrazione di uno spirito imprenditoriale spiccato e fino ad allora inconsueto in tale settore artigianale. Produceva anche attrezzi agricoli e pubblicizzava pigiatrici da uva e torchi per vinacce “solidamente costrutti con scelto materiale, a prezzi ridotti, colle più ampie garanzie da non temere concorrenza”. Dimostrò di saper fare di tutto, da lavori di grossa consistenza, come la cancellata della barriera di porta San Florido, ad altri di maggiore sofisticatezza, come la cassaforte del Monte di Pietà o alcune componenti degli orologi pubblici posti sulla torre del Comune e sulla facciata della chiesa di Sant’Antonio. Per il Municipio, inoltre, collocò il sistema di campanelli negli uffici, costruì il cancello di fronte alla piazzetta dell’asilo d’infanzia e fornì a nolo il motore necessario alla ricerca dell’acqua potabile nel sottosuolo. Erano suoi anche l’orologio del santuario di Canoscio e i cancelli in ferro battuto di palazzo Vecchio Bufalini e della cappella della Madonna della Pace in Duomo. Quest’ultimo manufatto, disegnato dall’architetto fiorentino Luigi Del Moro, lo completò nel 1877.
Si trattò della più rilevante commessa ricevuta dalla Cattedrale; per il resto, Vincenti prestò la consuetudinaria opera del fabbro. La continua richiesta di chiavi e serrature testimonia della sua perizia nelle lavorazioni che richiedevano finezza di esecuzione. Numerose ricevute – scritte in un italiano più appropriato dei predecessori – mostrano inoltre che ebbe a lungo in cura anche la manutenzione delle campane. Dovette controllare che fosse in ordine il loro “castello” sul campanile, ingrassare e “fissare con chiodi e zeppe” i poli, i perni e le altre ferrature, sistemare il “batocchio della campana grossa” e rifarne “l’uncino”.
La sua officina impiegava diversi addetti; spesso affidava proprio ad alcuni di essi i lavori in Cattedrale. Nel 1882 Vincenti ne occupava 15, ma il numero probabilmente teneva conto anche di qualche unità in più impiegata d’estate, quando lo assorbiva soprattutto l’attività della battitura del grano per i contadini della zona. Si legge in una relazione municipale di quell’anno: “[La sua impresa] va ogni giorno allargandosi, ha trebbiatrici e lavora in larga scala”. Allora possedeva tre “locomobili cilindriche orizzontali tubulari […] rispettivamente di 6, 4 e 3 cavalli di forza, costruite in ferro”. La tariffa quotidiana degli operai di Vincenti, ancora di L. 2 nel 1900, sarebbe cresciuta a L. 2,25 due anni dopo.
Da buon conoscitore delle macchine a vapore, Guglielmo Vincenti era attratto dalle novità tecnologiche e, a differenza di quegli artigiani il cui orizzonte non spaziava oltre gli angusti limiti locali, cercò di mantenersi aggiornato, visitando le esposizioni agricole e industriali dell’epoca. La poliedrica attività dell’officina avrebbe presto messo a nudo la carenza di spazio a disposizione nel locale di corso Vittorio Emanuele II, tanto da richiedere, nel 1901, il trasferimento in un nuovo stabilimento fuori le mura, nel sobborgo di Rignaldello.