Il maestro Mario Guerri (1919-2012) è stato una figura di spicco della Democrazia Cristiana tifernate. Più volte segretario della sezione, divenne assessore alle finanze nell’amministrazione comunale di centro-sinistra, quindi a lungo vice-presidente della Cassa di Risparmio. Guerri ha recitato un ruolo di rilievo nella promozione della Mostra del Cavallo e della Mostra del Mobile in Stile.
Il modo in cui Guerri si avvicinò alla politica, quando ancora in Italia si combatteva la seconda guerra mondiale, è emblematico della peculiare situazione nella quale si trovò una generazione di giovani che usciva dalla dittatura fascista.
“L’8 settembre 1843, data dell’armistizio, mi trovai nel sud. Avevo 24 anni. Eravamo passati con gli americani; giungemmo prima a Lecce, poi a Foggia. Quindi ebbi occasione di andare a Bari. Lì partecipai a un convegno nel quale dibattevano comunisti, democristiani e socialisti. Era la prima volta che sentivo dibattere liberamente persone di idee diverse, soprattutto socialisti e comunisti”.
Che sensazione ebbe?
“L’impressione è stata grande: sentire parlare di libertà; non sapevamo neanche cosa fosse. È stata una scoperta”.
Come mai scelse di entrare nella Democrazia Cristiana?
“Quando tornai a casa sentii il bisogno di aderire a un partito, a una delle tre fedi politiche che avevo conosciuto a Bari. Siccome ero in stretti legami con mons. Vincenzo Pieggi, finii con l’aderire alla Democrazia Cristiana. In realtà mi interessavano anche i socialisti; la mia prima tendenza era quella, perché il mio babbo – ma un po’ tutti in casa – era socialista”.
Che ne pensavano, in casa, del fascismo?
“In famiglia ho sempre respirato un clima ostile al regime”.
Sua madre, Concetta Solani, gestiva una rinomata osteria in via Santa Croce: lì si parlava di politica?
“All’osteria ci venivano i ferrovieri – perché il mio babbo, Gustavo, lavorava in ferrovia – e gli operai della vicina Fattoria Tabacchi. I discorsi che facevano erano sempre da socialisti. Anche in epoca di regime c’erano questi piccoli rifugi dove si poteva parlare più liberamente. Il regime fascista, rispetto a quello nazista o stalinista, era più all’acqua di rose”.
Nel 1926 sorse la “pupilla del Regime”, l’Opera Nazionale Balilla, ideata per dare ai giovani una educazione fascista integrale. Lei aveva 7 anni. Che ricordi ne ha?
“A scuola ero uno dei cinque o sei non iscritti all’Opera Balilla. All’inizio si poteva non aderire. Più tardi, però, la divisa da avanguardista ho dovuto metterla, se no non si campava! Ricordo che una delle ragioni per le quali all’inizio rifiutai l’ONB fu per ostilità verso il maestro Franchi. Ci parlava altro che di fascismo, di Balilla. Ci costringeva anche a comperare il giornalino dei Balilla. Non se ne poteva più!”
Le crearono dei problemi?
“Non mi sembra. Però a scuola il maestro mi sfotteva sempre perché mia mamma vendeva il vino; lo diceva come se fosse un disonore. I maestri, quando volevano essere fascisti, lo erano per bene, accidenti! Spesso venivano a scuola in divisa: agli esami sempre”.
Presiedeva l’Opera Balilla il prof. Gaetano Bani…
“Si, una persona in gamba. Anche se era uno del tipo ‘armiamoci e partite’: infatti partì per andare in guerra in Africa, poi invece si fermò a fare il preside da qualche altra parte… [Bani emigrò in Sud America]”
Durante il fascismo i rapporti tra regime e Chiesa cattolica furono a tratti difficili.
“A un certo momento ci volevano anche menare. Non solo del ’31, quando ci fu la rottura tra Mussolini e l’Azione Cattolica. Allora non si poteva nemmeno portare il distintivo dell’Azione Cattolica. Avevo solo 12 anni, ma ricordo la tensione di quei momenti. Ricordo anche che davanti al portone del vescovo scrissero ‘Abbasso l’Osservatore Romano’. Vi furono problemi anche dopo: una volta i fascisti erano partiti per venirci a menare lì a San Giovanni in Campo”.
Perché tanta ostilità?
“Perché dentro l’Azione Cattolica italiana, dentro quella castellana di sicuro, si respirava aria antifascista. Molti iscritti all’Azione Cattolica provenivano dal partito popolare, credevano nella democrazia”.
Che ambiente frequentava?
“Io stavo in via dei Disciplinati e tutta la mia vita giovanile si svolgeva a San Giovanni in Campo, con mons. Vincenzo Pieggi. Passavo più tempo lì che a casa. Per noi giovani Pieggi aveva un rilievo grandissimo. Prima di tutto era una persona colta e generosissima; poi ci faceva fare una vita serena e questo era già importante. Con lui sentivamo quella serenità che non si percepiva nelle organizzazioni del regime. Capiva i giovani; era tutt’altro che un bacchettone, per quei tempi”.
Ad un certo punto Pieggi ebbe l’incarico di cappellano dell’Opera Nazionale Balilla. Ma che ne pensava in realtà del fascismo?
“Quando si toccava l’argomento del regime fascista, lui ci diceva di essere apertamente contro. L’aria che si respirava era quella. Ci sentivamo protetti con Pieggi a San Giovanni in Campo, si poteva dire male del Duce, del fascio; tranquillamente”.
Cosa non vi piaceva del Duce?
“Innanzitutto era d’origine anticattolica. E poi sentivamo che il regime voleva soffocarci. Potevi fare una vita solo interna alla nostra associazione; non potevi uscire esternamente. Non avevamo alcun diritto politico”.
Ma, voi, cresciuti ed educati in una dittatura, sentivate il bisogno di una libera partecipazione alla vita politica?
“È vero che non sapevamo nemmeno cosa fossero i diritti politici; eravamo abituati a non averli. Quindi non ci rendevamo conto di cosa significassero libertà e democrazia; non si sentiva il bisogno della partecipazione politica. Però si sentiva che c’era un’aria pesante, che si viveva una situazione anormale”.
Ricorda qualche figura di antifascista di quegli anni?
“Il professor Giuseppe Segreto. Insegnava alle scuole private del Collegio Serafini, dove ho frequentato il corso magistrale. Ci faceva matematica. Non aveva paura di esprimere le sue idee. Una volta disse: ‘Di ogni tedesco ne farei un tordo’. E poi l’avv. Donini…”
L’avv. Donini fu un esponente importante della Democrazia Cristiana del dopoguerra. Però capeggiava l’ala più moderata, conservatrice.
“Sicuramente. Proveniva dal partito popolare ed era uno di quelli che ne aveva buscate dai socialisti a San Paterniano, quando i socialisti aggredirono i cattolici il Primo Maggio del 1920. Però era una persona di una rettitudine inaudita e un convinto antifascista; inoltre un amico intimo di Giulio Briziarelli, ispettore scolastico, socialista e massone. Durante il fascismo, il Primo Maggio l’avv. Donini metteva la cravatta rossa, insieme ad altri tre o quattro di Castello”.
Un cattolico con il rosso addosso!
“Certo. Anche se cattolico e politicamente conservatore, metteva la cravatta rossa perché era un simbolo dell’antifascismo”.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 2 settembre 2005 e pubblicata ne “L’altrapagina”, dicembre 2005.
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