Albert Goodwin al tempo della guerra.
Foto ricordo di militari britannici a Città di Castello.
Artiglieria della X Divisione Indiana presso Città di Castello.

Goodwin Albert. Ricordi di un militare britannico: la guerra nell’Alta Valle del Tevere

È un militare di Sua Maestà britannica a raccontarci episodi e impressioni del passaggio del fronte bellico nell’Alta Valle del Tevere. Ci si conosce da tempo. Proprio dieci anni fa pubblicammo in questo giornale una sua intervista. Si chiama Albert Goodwin e ha la veneranda età di 95 anni: “Sono nato – dice di sé – in un nevoso 7 gennaio 1920 nel paese di Great Paxton, a tre miglia da St Neots, nella contea di Cambridge”.
Albert mi invia ancora i suoi ricordi con lettere manoscritte, spedite “air mail”. Roba d’altri tempi. Ha combattuto tutta la seconda guerra mondiale, prima in Africa, poi in Italia: “Quando si lasciava il Regno Unito per la guerra, si sapeva che per quattro anni non saremmo tornati a casa. Di licenze, ne ho avute solo due al Cairo – di 3 e di 7 giorni – e un’altra di una settimana in Italia il 20 aprile 1945”.
Insomma, un’esperienza militare lunga, tosta, iniziata come cannoniere nell’Artiglieria Reale nell’Africa settentrionale, fino alla battaglia di El Alamein. Poi il trasferimento in Italia, con la 10a Divisione Indiana. Con essa ha risalito la Penisola, attraversando tutta l’Alta Valle del Tevere: “Ero caporale nel posto avanzato di osservazione dell’artiglieria; avevo il compito di inviare informazioni o in codice Morse o con la radio a onde corte”.
Il racconto di Albert ci riporta alla storia di quell’estate del 1944: “Con una serie di azioni di aggiramento, per lo più effettuate di notte, il fronte si avvicinò a Umbertide. A quel punto, con la valle che si allargava, ci si semplificò la vita, perché potevamo contare sul contributo dei carri armati”. Poi l’ingresso da liberatori a Umbertide: “Una splendida cittadina. Le strade erano piene di gente che ci applaudiva e sventolava bandiere”. Un altro suo ricordo è legato al territorio di Umbertide: “Un nostro caccia colse di sorpresa tre soldati tedeschi che stavano razziando del bestiame dal villaggio di San Benedetto e li uccise con i colpi del suo cannoncino”.
Oltre Umbertide, per le truppe anglo-indiane il terreno si fece di nuovo difficile, perché la valle si restringeva e i tedeschi potevano arroccarsi sulle tante alture poste ai due lati del Tevere. L’avanzata alleata ievitabilmente rallentò. Albert ricorda l’attacco notturno dell’8° reggimento Manchester a Carpini e la battaglia vinta dal reggimento King’s Own a Montone. Lui era con le truppe che da Montone proseguirono verso la valle del Soara e Città di Castello. Furono soldati indiani del Marathastra ad avanzare da Tre Ponti a Monte Falcone: “Grazie all’aiuto dell’artiglieria che noi dirigevamo, i maratta respinsero un pesante contrattacco del 304° Jaeger Regiment e si attestarono a Morlupo”. Anche in quella zona la cieca fatalità della guerra infierì sulla popolazione civile: “Vicino a Vitianello un italiano fu ucciso accidentalemente dai soldati gurkha che avanzavano”. I gurkha, altri soldati indiani particolarmente agguerriti.
Furono molti i civili che persero la vita durante il passaggio del fronte, intrappolati tra i due eserciti che si combattevano. Albert ammette che anche gli alleati si preoccupavano ben poco della sicurezza dei civili: “Si teneva in pochissimo conto i civili, a meno che non fossero rifugiati in case o cantine senza truppe tedesche nei pressi. E poi talvolta era quasi impossibile sapere dove la gente si era rifugiata. Non se ne poteva rendere conto nemmeno la fanteria avanzata, specialmente quando i civili si mescolavano ai tedeschi. Come a Carpini: alcune persone furono uccise dall’8° Manchester, quando un soldato lanciò una bomba a mano attraverso la finestra di una casa, pensando che fosse occupata dai tedeschi; ma sfortunatamente loro se ne erano andati”.
Si anteponeva a tutto le esigenze militari: “Quando ci si rendeva conto che truppe tedesche si stavano predisponendo per un attacco, non ci si lasciava condizionare dalla eventuale presenza di civili nei paraggi. Ricordo che la nostra artiglieria colpì con tiri a fuoco rapido una fattoria fuori di Anghiari dopo che un cannone anticarro tedesco nascosto in un fienile aveva fatto esplodere la torretta di un carro armato, uccidendo i due occupanti. Poi furono distrutti i vicini edifici, senza preoccuparsi se vi fossero dei civili”.
La spietatezza della guerra contrastava con la bellezza del paesaggio: “Io, che venivo dall’Inghilterra orientale, ho trovato l’Italia, e soprattutto l’Umbria, incantevole. Sono stato affascinato dalle sue montagne e dall’aperta campagna; diversa da quella della East Anglia, dove si può camminare solo lungo le stradicciole, dal momento che la maggior parte della terra è dedicata alle coltivazioni”.
A colpire indelebilmente Albert fu Monte Santa Maria Tiberina: “Un luogo meraviglioso, che non dimenticherò mai”. Soprattutto quella vista straordinaria dal balcone verso sud, che permette di spaziare da Monte Acuto fino ai monti marchigiani. Ma purtroppo la guerra lasciava rari momenti per contemplare il paesaggio.
Albert salì a Monte Santa Maria Tiberina con il caporale Jackson. Fuori delle mura trovò i corpi di alcuni gurkha colpiti in precedenza dal fuoco di mitragliatrici. Quando i due entrarono in paese, procedettero con cautela. Fuori di una casa si fermarono esitanti: “Sentivo un ticchettio. Il mio amico gridò: ‘è  una trappola esplosiva!’. E scappò via. Io invece aprii con un calcio la porta e mi trovai all’interno di quella che sembrava una bottega di impagliatore di animali; sul tavolo c’erano infatti contenitori in vetro di animaletti e uccelli e all’angolo una di quelle grandi sveglie di una volta che ancora ticchettava… Poi passai nella cantina, dove mi trovai immerso nel vino fino alla caviglia. La grande botte era stata costruita all’interno e i tedeschi, non potendo portare via tutto il vino, l’avevano bucherellata a colpi di arma da fuoco”.
Il 22 luglio la liberazione di Città di Castello: “Appena arrivati vi trovammo poca gente, perché  la maggior parte della popolazione era ancora sfollata nelle campagne. Ricordo che alcuni suoi angoli erano stati gravemente danneggiati dai bombardamenti e dalle mine, specialmente vicino ai ponti.  Poi la città si è rivelata molto amichevole. Ho trovato la maggior parte della gente della vostra valle molto generosa e solidale. È successo sempre così a me, che i più sensibili ai problemi dei comuni soldati si dimostravano i poveri. E accettavano molto volentieri di lavare i nostri panni in cambio di confezioni di sapone e di barrette di cioccolato”.
In quell’estate i tifernati si trovarono “invasi” da truppe indiane, di colore: “A Fontecchio erano accampati i maratha; i soldati del Beluchistan avevano le loro tende in piazza di sotto, vicino al duomo; i gurkha stavano agli Zoccolanti e altre truppe ancora erano acquartierate nella zona di San Giacomo. E poi c’erano i sihk”. Mentre gli ufficiali britannici venivano ospitati nelle case più decorose, i soldati dovevano arrangiarsi con le tende: “Avevamo in dotazione piccole tende personali chiamate ‘bivouacs’. Naturalmente non potevano essere montate in prima linea, perché troppo visibili. Ma di solito, d’estate, dormivamo semplicemente all’aperto. Se pioveva, si trovava qualche riparo all’interno di stalle o di edifici del genere; altrimenti si scavava una trincea e si sistemava sopra, come riparo, la tenda”.
Mentre il fronte bellico stazionava nella valle, il tempo libero dagli impegni di guerra Albert lo passava a Città di Castello. Vi rimase circa sei settimane. Nel sobborgo di Rignaldello strinse amicizia con la famiglia Burani: “Da tre anni ero lontano dalla vita civile e sentivo un grande bisogno di compagnia e di ambiente famigliare. Sante e Maria Burani mi fecero da genitori. Maria mi lavava i panni quando tornavo dalla prima linea e mi cucinava una coppia di uova in cambio di  scatolette di manzo conservato sotto sale. Ma l’oggetto più prezioso per lei fu una saponetta di Palmolive: se la rigirava di continuo fra le mani”.
Albert andava a zonzo per la città con Giuseppe and Luigi Burani e, in quei giorni di solleone, scoprì la naturale fonte di refrigerio dei tifernati: “Andavo a fare il bagno al Tevere. Il fiume aveva poca acqua, ma vi era stata scavata una grande buca perché ce ne fosse abbastanza per nuotare”. Insomma, una specie di piscina naturale.
Un ricordo particolare lega ancora Albert Goodwin a Maria Burani: “A Monte Santa Maria, per strada, raccolsi una piccola spilla, di poco valore. Probabilmente l’aveva presa in qualche casa un tedesco, per poi buttarla via proprio perché senza valore. Di metallo biancastro, raffigurava un ferro di cavallo di, con un quadrifoglio al centro, ed era incastonata di pietrine di vetro di colore bianco, rosso e verde. Decisi di tenerla. Quando lasciai Città di Castello, la mia carissima Maria Burani – aveva l’età di mia madre – me la cucì su una pezzo di stoffa rossa, dove ancora la conservo, dicendomi: ‘Finché la terrai addosso, non ti succederà niente di male’. Sebbene all’epoca non credetti a quanto mi disse Maria, non mi è successo niente davvero. Così ogni anno, per Ognissanti, faccio portare dei fiori sulla tomba di quella donna meravigliosa”.
L’allora giovane caporale Albert Goodwin conserva qualche ricordo anche dell’ufficiale britannico posto a capo della città, il maggiore Brooke: “L’ho incontrato solo una volta. Un uomo di mezza altezza. Lo consideravo un ufficiale di accademia, come penso fossero tutti i governatori. Erano scelti per la loro età avanzata e per essere stati a lungo ufficiali di stato maggiore, con elevata capacità di organizzazione. E Brooke non era un’eccezione. Con me ebbe un atteggiamento paternalistico, da vecchio maestro. Ma ritengo che fece del suo meglio per soddisfare le esigenze sia del Governo Militare Alleato, sia della popolazione”.
Intanto il fronte bellico procedeva verso Monterchi, Anghiari e l’Alpe di Catenaia: “Vicino a Monterchi una sezione del Central Indian Horse fu inviata in esplorazione. Appena lasciata la strada incapparono in un campo minato. Il tenente Young ebbe una gamba devastata, così come due suoi soldati indiani. Stringendo con una cinghia la coscia, e nonostante il rischio dell’esplosione di altre mine, strisciò sul terreno insieme al soldato indiano Ram per andare in aiuto dei suoi uomini gravemente feriti. Anch’io, durante le giornata, mi detti da fare per tirarli fuori dal campo minato. Young e Ram furono insigniti dell’onoreficenza della George Cross, seconda solo alla Victoria Cross”. Il loro gesto è ricordato da una lapide nella piazza di Monterchi.

 

Testimonianze raccolte da Alvaro Tacchini e pubblicate ne “L’altrapagina”, febbraio 2015.Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.