Truppe indiane in marcia nell’Alta Valle del Tevere.
Soldato gurkha.
Soldato del Punjab.
Soldato mahrata.
Yeshwant Ghadge

Goodwin Albert. Ricordi di un militare britannico: i soldati indiani

A liberare la nostra terra da fascismo, che da qualche anno scimmiottava il nazismo sulla presunta superiorità razziale dei bianchi ariani, paradossalmente furono anche dei soldati di colore. Indiani dalla pelle nera e bianchi anglosassoni componevano infatti le truppe britanniche che risalirono l’Alta Valle del Tevere, cacciando i tedeschi dopo aspri combattimenti. E pure gli indiani pagarono un elevato prezzo di sangue.
Di loro mi parlò un reduce originario di Cambridge, Albert Goodwin, sergente maggiore – ma all’epoca ancora caporale – nella X Divisione Indiana, che combatté in tutta l’Umbria, da Terni a Città di Castello, per poi continuare l’offensiva contro i tedeschi in direzione di Sansepolcro, Monterchi e l’Aretino. Faceva parte del battaglione inglese che affiancava i tre battaglioni indiani, rimanendo sempre a stretto contatto operativo con loro.

 

Chiedo a Goodwin se vi fossero problemi di convivenza. Lo nega:
“Noi britannici rispettavamo molto le truppe indiane. Generalmente molti degli ufficiali inglesi erano stati reclutati in India, tra britannici che avevano vissuto laggiù. Se mai, sorgeva qualche problema di lingua. I Gurkha venivano dal Nepal; i Mahrattas dall’area di Bombay. Parlavano le loro lingue e difficilmente l’inglese. Io, con loro, mi facevo capire addirittura con un misto di inglese e di italiano imparato combattendo in Italia. Inoltre i soldati asiatici avevano portato con sé i loro usi e costumi: ad esempio, le divisioni indiane avevano al loro seguito i ‘dhobi’”, uomini di casta inferiore che svolgevano i compiti più umili, come lavare i panni e mattare e cucinare le capre e le pecore, che dovevano essere portate loro vive: le uccidevano e cucinavano sul posto”.
Che tipo di soldati erano questi asiatici?
“Dei grandi soldati. Molto migliori dei britannici, anche se gli inglesi non lo ammetterebbero mai. Non avevano paura di niente. Credevano in ciò che facevano. Non avevano nulla da guadagnare da quella guerra. Combattevano più loro per la monarchia, che non i britannici. Anche allora, come ora, era un onore entrare a far parte dei reparti gurkha. Era una tradizione di famiglia. Quelli che non venivano accettati, per qualche colpa o malattia, rimanevano sconvolti”.
Soffrivano di nostalgia, così lontani dal loro mondo?
“Per niente. Eppure, in quel 1944, alcuni di loro, come noi, mancavano da casa da 4 anni”.
Avevano fama di non aver paura di niente…
“Noi britannici avevamo più paura di morire degli indiani. Loro non ne avevano affatto; amavano la vita militare e consideravano i combattimenti come il più bello dei giochi. Inoltre erano certi di andare in paradiso. Prima della battaglia si lavavano i capelli, e li tagliavano in parte, lasciando un lungo ciuffo che ricadeva dalla parte alta del cranio. Pensavano che quel ciuffo sarebbe servito per tirarli su verso il paradiso. Non erano così i britannici, in gran parte uomini di leva che volevano soprattutto tornare a casa appena possibile”.
Goodwin mi racconta poi un episodio, emblematico sia della fredda determinazione dei comandanti, sia delle preoccupazioni dei soldati per la propria incolumità:
“Una volta, durante l’avanzata  nell’Appennino romagnolo, il brigadiere mandò il suo luogotenente a verificare dove poter costruire un ponte per passare un fiume. Il luogotenente riferì di due posti: il primo migliore tatticamente, ma con elevato rischio di perdite umane, perché sotto il controllo delle mitragliatrici tedesche; il secondo peggiore tatticamente, ma di certo meno pericoloso. Il brigadiere decise per quello più pericoloso, dicendo che per quella azione era preparato a perdere il 25% delle sue truppe. Andò a finire che i suoi subordinati fecero di testa loro, costruirono il ponte nella parte meno pericolosa e il brigadiere non si accorse di niente. Il fatto è che le truppe britanniche, se ritenevano una scelta ingiusta, non la eseguivano. Gli indiani invece ubbidivano sempre”.
Ubbidivano ed erano tremendamente efficaci.
“Per dare un’idea della loro perizia militare, sin dai miei primi giorni nella divisione indiana ci dissero con estrema chiarezza di non allacciare mai i nostri anfibi a forma di x, come i tedeschi, e di non indossare mai le cinture alla maniera dei tedeschi. Infatti, di notte, scivolando sul terreno, gli indiani riuscivano ad avvicinarsi alle sentinelle tedesche assopite, riconoscendole come nemici proprio dai loro lacci degli stivali e dalle cinture. E  quel punto per loro non c’era scampo. Tutti i soldati indiani erano grandi combattenti, ma i gurkha erano anche feroci”.
Soldati determinati e feroci. Della loro spietatezza mi aveva parlato in un’intervista Aldo Pacciarini. Lui, giovane partigiano, ebbe l’occasione di combattere al loro fianco:
“Un gruppo di noi fu incaricato dagli inglesi di affiancare i gurkha per eliminare un presidio tedesco a Ghironzo. Prendemmo i tedeschi di sorpresa. Due o tre furono ammazzati con raffiche di mitra. Alcuni furono presi dai gurkha dentro la buca e sgozzati mentre si arrendevano. Poi i gurkha tagliarono loro le teste”.
Goodwin conferma che i gurkha non prendevano prigionieri.
“I gurkha sapevano che i tedeschi li disprezzavano razzialmente; per loro erano dei soldati negri e non li consideravano niente. Ecco perché i gurkha, a meno che non ci fosse bisogno di catturare qualcuno per avere delle informazioni, non si preoccupavano di prendere prigionieri. Del resto i tedeschi si comportavano nella stessa maniera. Qui in Italia non ho mai saputo di prigionieri indiani sopravvissuti ai campi di prigionia tedeschi”.
È vero che i gurkha tagliavano le orecchie dei nemici uccisi?
“Lo venni a sapere in Italia. Avvenne così. Quando i gurkha tornavano dalle loro pattuglie, dichiaravano spesso di aver ucciso un numero inverosimile di nemici. Così gli si chiese di riportare, come prova, un orecchio per ogni nemico ucciso. Ma poi qualcuno cominciò a riportare due orecchi dello stesso cadavere, dichiarando di averne uccisi due. Così la consuetudine fu abbandonata. Comunque nessun pagamento veniva effettuato per questi sinistri trofei. Alcuni gurkha, all’inizio della guerra in Italia, conservavano uno di questi orecchi in una bottiglia di spirito; io stesso ne ho visti due!”
Durante il passaggio del fronte i soldati del sub-continente indiano ebbero modo di fraternizzare con la popolazione altotiberina. Goodwin ricorda distintamente dove essi si accamparono a Città di Castello:
“A Fontecchio erano accampati i maratha; i soldati del Beluchistan avevano le loro tende in piazza di sotto, vicino al duomo; i gurkha stavano agli Zoccolanti e altre truppe ancora erano acquartierate nella zona di San Giacomo. E poi c’erano i sihk”.
Durante la campagna militare in Italia, Albert Goodwin aveva stretto amicizia con uno di questi soldati indiani, Yeshwant Ghadge, di 23 anni.
“Durante i periodi di riposo dietro le linee di combattimento si chiacchierava mescolando un po’ di inglese maccheronico con qualche parola italiana. Mi disse che veniva da Palasgaon, dalla zona di Bombay, che era sposato da poco e che in precedenza era stato in Iran, Iraq, Siria e a El Alamein”.
La storia di Yeshwant Ghadge (si trova talora scritto pure Yashwant e Ghatge) è quella di un soldato morto eroicamente.
“L’8 luglio 1944 la sua squadra di fucilieri della Mahratta Light Infantry fu investita da pesante fuoco di mitragliatrici tedesche presso Morlupo, tra Montone e Coldipozzo. Furono messi fuori combattimento da quei proiettili tutti i soldati indiani eccetto Yeshwant Ghadge, che da solo andò all’assalto della postazione tedesca, lanciando una granata e sparando all’impazzata col suo fucile mitragliatore. Nonostante avesse esaurito le munizioni, raggiunse la postazione della mitragliatrice e mise fuori combattimento i tedeschi colpendoli a morte col calcio della sua arma. Più tardi, però, fu a sua volta abbattuto da un tiratore scelto tedesco e cadde riverso sui corpi dei nemici che aveva ucciso. Per il suo valore, Yeshwant Ghadge fu insignito dell’onorificenza della Victoria Cross”.
Recentemente nel Green Park di Londra è stato eretto un Memorial per ricordare l’apporto dato dai soldati asiatici e del resto del Commonwealth alla guerra 1939-1945. Furono più di due milioni e mezzo i soldati del subcontinente indiano arruolati per la guerra, insieme a 375.000 africani e diverse migliaia di uomini originari delle isole caraibiche. Nel cippo marmoreo del Memorial è stato inciso anche il nome del decorato Yeshwant Ghadge.
Albert Goodwin, nelle sue visite in Italia, si è dato da fare per cercare la sua tomba. Ha rivisitato i luoghi dell’Alta Valle del Tevere nei quali ha combattuto  e ha provato una certa commozione nel rivedere la zona di Morlupo, dove il suo amico morì.  Finora, però, la ricerca non ha dato esito:
“Non fu mai trovata la tomba di Yeshwant Ghadge. Talvolta i compagni d’arme cremavano i propri caduti, secondo le tradizioni funebri hindu, ma non sembra che questo sia avvenuto nel suo caso”.

[nda, Una recente ricerca di archivio ha appurato che il corpo di Ghadge, insieme a quelli di altri 10 soldati maratha uccisi in combattimento nella stessa zona, finora ritenuti dispersi, è stato recuperato il 25 ottobre 1945 e cremato ad Arezzo].

Goodwin racconta altre cose di Yeshwant Ghadge e della sua famiglia.
“Sua moglie si chiamava Laxmibai. L’aveva sposata un anno prima di partire per l’Europa. Non avevano ancora avuto figli. Dopo la guerra, alla vedova fu riconosciuta una pensione che le ha garantito una vita dignitosa. Inoltre i reduci del reparto indiano in cui militava suo marito si rendono disponibili ogni qualvolta si trova in difficoltà. Ogni anno l’amministrazione della cittadina dove Yeshwant Ghadge viveva organizza una celebrazione del loro eroe di guerra, con una pubblica esposizione della Victoria Cross assegnatagli. In quel giorno i concittadini onorano la vedova con regali in denaro e vestiario”.
Al termine della guerra, quando tornarono alle loro case i soldati indiani non beneficiarono di alcun privilegio:
“Dopo la smobilitazione non godettero di nessuna particolare facilitazione di lavoro. Alcuni di loro,  alla mia età, vivono in capanne, nonostante tutto quello che hanno fatto per noi. Noi in Inghilterra inviamo delle donazioni private per aiutarli”.

 

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini e pubblicata ne “L’altrapagina”, dicembre 2005. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.