L’infelice esito della campagna dell’Agro Romano non depresse l’ambiente patriottico tifernate. Si nutriva la certezza che stessero maturando le condizioni per l’attacco finale a Roma e che bisognasse solo attendere le circostanze propizie. A tener desta l’aspirazione contribuì pure un attivo nucleo di esuli romani, rappresentato a Città di Castello da Luigi Marcozzi, pure lui reduce di Mentana.
La sua firma compare nel durissimo manifesto che condannò l’esecuzione, avvenuta a Roma il 24 novembre 1868, di Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Erano stati riconosciuti colpevoli di aver minato l’anno prima una caserma, provocando la morte di 23 zuavi pontifici e di 4 passanti; un attentato avvenuto mentre si combatteva a Monterotondo e inteso a provocare l’insurrezione dei romani. Il manifesto bollava il papa come “Nerone di Roma” e “implacabile nemico” e definiva l’esecuzione un “atto di ferocia Sacerdotale, che rifugge da ogni sentimento di umanità, di giustizia, di civiltà e di religione”. Vi si legge inoltre: “Il Vicario di quel Cristo che morente sulla Croce perdonava a’ suoi Crocifissori, il Capo di una Religione di amore e di carità, non sazio del sangue di tanti generosi nostri fratelli sparso a Mentana, acciecato dalla libidine di vendetta, si è voluto lordare del sangue dei due generosi Monti e Tognetti […]”. Infine la convinzione che la resa dei conti si stesse approssimando: “Il patibolo di Monti e Tognetti è il feretro del Pontificato Romano”.
Quanti auspicavano la presa di Roma non ebbero da aspettare molto. Nell’estate del 1870 la guerra franco-prussiana si concluse con la grave sconfitta di Napoleone III. Al papa venne a mancare chi da anni ne proteggeva il potere temporale. Il 4 settembre nasceva in Francia la Terza Repubblica. Il governo italiano seppe cogliere il momento, rassicurando le altre potenze europee sulla libertà di cui avrebbe comunque goduto il pontefice in una Roma diventata capitale del regno.
In quei giorni si percepiva in città l’emozione della svolta storica. Luigi Marcozzi invitò il Municipio tifernate ad inviare un indirizzo di ringraziamento al governo del Re “per la sua memoranda Deliberazione di liberare dal giogo del prete e de’ suoi mercenari i nostri fratelli di Roma”. Parlò di sé come di “esule di quella Roma che sta per essere rivendicata alla nostra Madre Italia, e che m’ebbi nella vostra patriottica Città ospitalità larga e generosa e della quale porterò scolpita nell’animo mio un’imperitura riconoscenza”.
Era il 6 settembre. Appena sei giorni dopo gli esuli romani residenti a Città di Castello gioivano con un manifesto perché l’esercito italiano era in marcia verso Roma per sancire “la fine del potere temporale del Pontefice” e dichiaravano: “I nostri nemici hanno perduto l’ultima decisiva irreparabile battaglia combattuta da noi tutti con tanta fede, con tanta costanza. La ragione contro il domma, la verità contro l’impostura, il diritto contro l’arbitrio e l’usurpazione”.
Attesa vanamente una dichiarazione di resa del papa, il 20 settembre le truppe italiane entravano in Roma. La sera stessa la Società Patriottica degli Operai di Città di Castello esultava: “Roma non è più dei Papi! Si compion’oggi le tante speranze, i tanti voti, da che il malaugurato Costantino la prostituì nelle braccia del prete. La gran macchina architettata dalla frode e dall’impostura si sfascela e sprofonda, traendo seco ogni sua vergogna”.
Il plebiscito del 2 ottobre 1870 sancì l’annessione di Roma al regno d’Italia. Il 2 luglio dell’anno dopo ne divenne capitale.
L’articolo è tratto dal volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010). Alla ricerca storica sui volontari ha collaborato Marcello Pellegrini.