Fatti nuovi avvennero a San Faustino e Pietralunga tra il gennaio e il febbraio 1944. In un incontro a San Faustino, il 20 gennaio, la formazione assunse una fisionomia più consistente e variegata, anche con esponenti britannici e americani. Vi parteciparono il capitano R. D. G. Ramsey, i tenenti D. P. Williams e Joseph Withers, il civile Leonard Mills e il console americano Orebaugh, che si era appena aggregato alla banda, condividendone in pieno l’attività, assumendovi un ruolo autorevole e offrendo pure una cospicua somma di denaro. Orebaugh e Luca Mario Guerrizio furono le figure chiave per allacciare contatti radio con gli anglo-americani e progettare l’invio di armi e rifornimenti dagli Alleati. A tal fine Guerrizio si recò a Firenze, incontrò esponenti del CLN toscano e – ebbe a scrivere – ottenne “dopo mille peripezie di far trasmettere il primo messaggio simbolico ‘Francesco ride’ – ‘Raffaello non piange’”. Inoltre riportò per il movimento clandestino umbro materiale propagandistico e chiodi a rampone (“da seminare sulle strade per provocare lesioni alle gomme di autocarri tedeschi transitanti sulle strade)”.
I primi di febbraio un folto gruppo di cospiratori volle sancire con un solenne giuramento di fedeltà alla causa per la quale stavano lottando. Nello studio dell’avv. Angeli, a Perugia, si incontrarono 18 ufficiali delle forze armate italiane. Fra di essi Luca Mario Guerrizio (il giuramento fu fatto “nelle sue mani”), Stelio Pierangeli, Mario Bonfigli e Bruno Enei, che avrebbero ricoperto ruoli di primo piano nel movimento di Resistenza dell’Umbria settentrionale.
A quell’epoca, constatando la mancanza di un adeguato armamento, il gruppo concordò di limitare ancora al massimo l’attività. Eppure volle mettersi alla prova e i primi giorni di febbraio dodici suoi uomini, tra cui Orebaugh, tesero un’imboscata a un convoglio tedesco, colpendo un paio di camion. Appena tre partigiani avevano in dotazione armi dell’esercito, con una sola mitragliatrice; gli altri spararono con fucili da caccia o sportivi.
Intanto cresceva la motivazione dei renitenti di Pietralunga intenzionati a resistere al nazi-fascismo. La casa dell’arciprete don Pompilio Mandrelli fu il luogo dove i giovani si riunirono per confrontarsi e fare progetti. Avrebbe testimoniato Vincenzo Martinelli: “Don Pompilio era il nostro consigliere. Fu in una di quelle notti che decidemmo di formulare il giuramento di combattere al limite delle nostre possibilità fino alla vittoria completa”. I partigiani pietralunghesi si dettero convegno a Villa San Salvatore l’11 febbraio 1944. Erano una quindicina. Presiedette l’incontro il tenente Giovanni Valcelli. Partecipò anche Mandrelli, che lesse la formula del giuramento: “Si giurò che avremmo tutelato, per quelle che erano le nostre possibilità, la libertà e la difesa dei valori umani e civili e anche cristiani della nostra zona, pronti a dar tutto, anche la vita”.
Proprio in quei giorni, però, la nascente rete antifascista clandestina nel Pietralunghese rischiò di essere sgominata. Avvenne che uno dei primi aderenti alla formazione, l’eugubino Giulio Baciotti, già esule e confinato, il 2 febbraio era caduto in mano ai fascisti e, siccome trovato armato, era stato minacciato di fucilazione; per salvare la vita – altri affermano in seguito a torture –, aveva rivelato i nomi degli oppositori di San Faustino. Le autorità di polizia già avevano individuato nel territorio di Gubbio e dei comuni limitrofi quella che definirono “un’attività clandestina a struttura collettiva caratterizzata e diretta da elementi intellettuali, in relazione con individui di varie classi sociali e con ufficiali del disciolto Regio Esercito, avente per finalità il sovvertimento dei poteri dello Stato”. La delazione di Baciotti permise alla polizia di scoprire l’organizzazione clandestina che stava prendendo forma tra Perugia e San Faustino. Affermò il questore Scaminaci: “Parallelamente […] ai tentativi di organizzazione sovversiva di Gubbio, si svolgevano a San Faustino delle riunioni politiche alle quali partecipavano elementi ed ex ufficiali dell’Esercito con lo scopo precipuo di organizzare e sostenere le bande armate”.
Scattò subito la caccia ai cospiratori, inseguiti da pesanti capi di accusa: diffusione di stampe sovversive, detenzione abusiva di armi, organizzazione di bande armate ribelli, partecipazione a bande armate ribelli, cospirazione politica, partecipazione a riunione sovversiva, favoreggiamento di prigionieri di guerra, detenzione abusiva di armi. La sera del 15 febbraio gli antifascisti di Perugia si incontrarono a casa Bonucci, fuori porta Elce. Un confidente della questura riuscì a preavvertirli del pericolo e durante la notte, quando giunse la polizia sul luogo, i ricercati si erano già dati alla fuga. Bonuccio Bonucci incautamente decise di portarsi verso San Faustino e venne incarcerato. Sebbene subissero la stessa sorte altri oppositori, i più riuscirono a sfuggire all’arresto. Guerrizio riparò a Firenze, ma la polizia mise le mani sul figlio Franco, che faceva parte dell’organizzazione.
La morsa della repressione costrinse la banda di San Faustino a disperdersi. Il regime tirò un sospiro di sollievo. Affermò il questore di Perugia: “[…] è da pensare che l’intervento degli organi di polizia repubblicana con i numerosi arresti dei principali esponenti della organizzazione e con l’assidua sorveglianza di altri elementi sospettabili sia stata la determinazione del disperdimento e dello smembramento della organizzazione la cui pericolosità è indicata dalla attuale menzionata partecipazione di Bonfigli, Pierangeli, Bonucci Giuseppe, Guerrizio e Terradura alle bande ribelli ove, per la loro capacità e per il loro grado militare, rivestono incarichi direttivi”.
Lo scompiglio non investì le bande di Capanne, di Cairocchi e di Montebello, ma mise in crisi anche quella di Morena. Scrisse don Marino Ceccarelli: “Mi trovai da tutti abbandonato, con molti giovani alle mie dirette dipendenze; poco vitto, scalzi, quasi nudi, ma non ebbi il coraggio di licenziarli”. Nel giro di pochi giorni il momento di crisi fu superato. Quanti erano scampati all’arresto ripresero a tessere la trama della cospirazione: Mario Bonfigli, Vittorio Biagiotti, Stelio Pierangeli e Giuseppe Bonucci, fratello di Bonuccio, tornarono nella zona. Guerrizio, a Firenze, si rese utile mantenendo i contatti con gli Alleati; come si vedrà, si sarebbe grandemente giovato dell’ausilio dell’ufficiale dei carabinieri tifernate Maurizio Bufalini.
La cattura di Bonucci avvenne intorno al 16 febbraio 1944. San Faustino era ormai un nascondiglio insicuro, così la banda si trasferì nella più remota Morena.
Per il testo integrale, con le note e la fonte delle illustrazioni, si veda il mio volume Guerra e Resistenza nell’Alta Valle del Tevere 1943-1944, Petruzzi Editore, 2016..
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.