Giovanna Oscari. Ostetrica in tre continenti.

 

“Viaggiare vuol dire cercare, acquisire consapevolezza, avere contatti con culture differenti, vivere situazioni estreme; quelle situazioni che ti costringono a buttarti, a metterti alla prova. Il viaggio non è solo fatto di lunghe distanze, ma è interiore, si nutre di profondi valori spirituali”.
A dirlo è Giovanna Oscari, un’ostetrica che, per quanto appena trentenne, ha già avuto esperienze di lavoro in Amazzonia, nelle Baleari spagnole, in Nigeria e, ora, in Guinea Bissau.
“Ho sempre sentito il desiderio di mettermi in gioco” – afferma Giovanna –, “di crescere da un punto di vista umano e professionale. Nelle mie scelte si intrecciano motivazioni ideali e professionali di fondo, non c’è niente di eroico”.
Un percorso professionale, il suo, di coraggiosa ricerca: “Non desideravo affatto rimanere chiusa in un reparto di ostetricia in Italia. Sentivo che quanto avevo imparato all’università era limitato, una parte del tutto, di un tutto che volevo scoprire altrove, oltre i protocolli ospedalieri. E il mio è stato un viaggio continuo, graduale; il cammino che sentivo più giusto e vero per me”.
Giovanna ha potuto assistere e partecipare allo straordinario evento della nascita degli esseri umani in ambienti totalmente diversi. All’inizio in Amazzonia, presso una popolazione così lontana dalla cosiddetta civiltà, con il loro parto indolore, nella foresta: l’esperienza primordiale di una donna sola con se stessa e la nascita del suo bambino.
Poi, un gran salto dal Brasile al centro del Mediterraneo, a Manacor, nell’isola spagnola di Maiorca.
“Quando ero ancora in Brasile, ad un anno della mia laurea, un’amica mi invia una mail dicendomi che a Maiorca cercavano ostetriche. Così ho inviato il curriculum e mi hanno assunta. A Maiorca mi sono trovata in una realtà del tutto diversa dall’Amazzonia. Le donne avevano paura dei dolori del parto, chiedevano l’epidurale. Per me, che arrivavo da un mondo dove avevo capito e vissuto l’importanza dell’esperienza iniziatica di un parto naturale, si è trattato di un proficuo confronto con altri modi di vedere. A volte anche doloroso; però mi ha permesso di crescere tanto. Non sono mancate aperte discussioni per difendere i differenti approcci alla nascita; ma mi sono sentita sempre molto rispettata. Posso dire che molte persone là ancora ricordano quanto sia stato produttivo questo confronto e quanto il nostro nuovo modo di vedere le cose abbia lasciato segni concreti nella maternità di Manacor”.
A Maiorca Giovanna condivideva le sue convinzioni con tre colleghe italiane: “Insieme abbiamo portato avanti la ‘rivoluzione del parto naturale’. Ancora con loro sogno di poter creare un giorno una casa-parto magari qui in Italia, in Umbria, dove la nascita, la madre e la nuova famiglia siano accompagnate con rispetto, non negando la sacralità che questo evento rappresenta nella vita degli esseri umani”.
Giovanna è rimasta a Maiorca dal maggio 2008 al novembre 2010, in un ambiente che ha molto contribuito alla sua crescita professionale anche per averle garantito ampia autonomia e una forte responsabilizzazione. Di lì a poco un altro gran balzo, fino in Etiopia, dove ha offerto il proprio lavoro volontario in una casa di accoglienza gestita delle sorelle di Madre Teresa di Calcutta. Quattro mesi all’inizio del 2011, “un’esperienza tosta, forte”, la definisce Giovanna.
In quel 2011 un’altra sfida, sempre in Africa: sei mesi a Lagos, capitale della Nigeria, con la nota organizzazione Médicins Sans Frontières: “Là facevo formazione. Ero una ‘midwife supervisor’, responsabile di un team di ostetriche in un dipartimento materno. È stata un’altra esperienza molto formativa. Anche con momenti di frustrazione, perché ti rendi conto che è poco quello che puoi cambiare in certi ambienti. Non puoi non notare la drammatica differenza che esiste tra i tanti diritti di cui noi godiamo e i pochi di cui godono invece altrove…”
Infine un ulteriore trasferimento dall’altra parte di quel continente, in Guinea Bissau, nell’Africa occidentale: “Adesso lavoro per l”Associazione Italiana Amici di Raul Follereau’. Si tratta di un progetto finanziato dalla Comunità Europea, per migliorare i servizi di salute sessuale e riproduttiva al fine di ridurre le morti legate alla gravidanza, agli aborti, al parto. Devo formare gli operatori sanitari locali, quindi organizzo training, corsi di aggiornamento per ostetriche, infermieri e dottori”.
Giovanna opera nella cittadina di Gabù, circa 40 mila abitanti, e nel suo territorio. È responsabile di area, con compiti di rilievo per quanto concerne le strategie da adottare e i mezzi da impiegare: “Mi gratifica il fatto che abbia autonomia, libertà di movimento, e anche un certo potere decisionale. Ma a volte è molto difficile e vorrei non sentirmi addosso tanta responsabilità”.
A complicare le cose c’è l’instabilità politica della Guinea Bissau, un paese scosso da continui colpi di stato militari. L’ultimo della serie, proprio nel 2012, ha indotto gli organismi internazionali (dai quali il Paese dipende da tutti i punti di vista, incluso quello alimentare), a tagliare i fondi.
Una situazione di rischio per i cooperatori internazionali? Giovanna tende a minimizzare: “L’instabilità politica non coinvolge noi stranieri. È una cosa loro, e nemmeno sembra riguardare tutta la popolazione. Ci sono di mezzo soprattutto i politici e i militari. Quanto a noi cooperanti, credo ci considerino un bene prezioso, che difficilmente decideranno di mettere a rischio”.
Comunque, per alcuni mesi Giovanna è stata costretta a sospendere il lavoro e a rientrare in Italia, in attesa che si calmassero le acque. Lo scorso ottobre è riuscita a tornare in Guinea Bissau e da allora il progetto procede bene.
Il rapporto con la gente del posto è molto positivo: “Quella guinense è una popolazione pacifica, ricettiva; vi convivono una ventina di etnie, musulmani e cristiani. Dobbiamo sempre tenere a mente, comunque, che siamo ospiti. È fondamentale. E non possiamo imporre modelli che non appartengono alla loro cultura”.
Il lavoro di Giovanna è costantemente condizionato dalle grandi differenze culturali: “La loro maniera di concepire le emergenze è molto diversa dalla nostra. Viene di chiederci perché rispondono così diversamente quando una persona sta morendo, perché non corrono in caso di emergenze ostetriche, di complicazioni. Ti rendi conto che per loro la morte è una cosa normale, la affrontano con fatalismo”.
Questo fatalismo è un retaggio dell’animismo che pervade il loro modo di pensare: “Se una donna sta male, è perché uno spirito cattivo si è impossessato di lei. Cosa difficile da accettare per noi, anche da combattere. In certi momenti di emergenza ti scontri con atteggiamenti così diversi e ti chiedi se sia giusto stare là a imporre i nostri modelli. Però alla fine sono loro i primi a chiederci aiuto, a chiederci di diminuire la mortalità materna”.
Riesco a parlare con Giovanna nei pochi giorni che è tornata per assistere il parto di una cara amica. Sono proprio gli affetti a tenerla legata alla nostra valle, specialmente a Città di Castello e a Monte Santa Maria Tiberina: “Le mie radici sono le persone, più che la terra; persone che diventano parte di me. Quando sono all’estero, certamente sento nostalgia di casa, ma è sana nostalgia, e credo che non sia una dipendenza dalla mia terra. Mi mancano le persone che amo, perché sono proprio loro le mie radici”.
Giovanna è ormai cittadina del mondo: “In realtà a volte mi capita di sentirmi totalmente a casa anche quando sono altrove nel mondo; mi sento a casa quando raggiungo la mia integrità interiore, quando vivo in sintonia con il mio cuore. Il mio sentirsi a casa va al di là dei luoghi”.
E quando ci si radica nel mondo intero, il viaggio – oltre che metafora della vita – diventa un impulso irrefrenabile: “Dopo qualche mese che mi trovo all’estero” – dice Giovanna -, “sento sempre il desiderio e l’esigenza di tornare qui; ma allo stesso modo, quando sono qui, sento ancora forte il desiderio di ripartire e di continuare il mio viaggio…”
 
 
L’intervista è stata pubblicata nel numero di febbraio 2013 de “L’altrapagina”.