Gian Luigi Berardi, detto Gigetto, è un personaggio molto noto a Città di Castello. Come musicista, ha suonato per diverse band di musica leggera e orchestrale. Si è pure impegnato in politica e nel sociale, ha scritto qualche libro ed è rimasto un “castelèno” verace, un figlio schietto del rione Mattonata. E con onesta disinvoltura racconta le sue vicissitudini nel turbolento biennio 1943-1945.
Nel settembre 1943, all’epoca dell’armistizio, Gigetto non aveva che 16 anni. Più che la guerra, fu una sventura famigliare a cambiargli la vita. Un mese dopo perdeva il padre Ivo, originario di Acqualagna, che faceva il procaccia postale per le Autolinee Montesi di Città di Castello. All’improvviso i Berardi, che prima non avevano problemi economici, si trovarono nel bisogno: “Mi è cambiata la vita. Avevo sul groppone l’intera famiglia: la mamma allettata, due fratelli…”
Pur di guadagnare qualcosa, Gigetto decise di arruolarsi volontario: “La mia era leva di mare. Andai a Perugia, ma non ci fu niente da fare. Insieme ad altri due castellani ci recammo a La Spezia. Arrivammo il giorno che stavano costituendo la X Flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese. Una unità scelta di fanteria di marina, destinata a combattere contro gli Alleati. Ci arruolarono e ci dettero subito una divisa da paracadutista. Io avevo il numero di matricola 25. Appartenevamo al battaglione ‘Maestrale’, divenuto poi ‘Barbarigo’”.
Gigetto si arruolò dunque in un corpo scelto del fascismo repubblicano, con indosso le mostrine rosse col leone di San Marco, consapevole di dover combattere gli Alleati. Aveva raggiunto l’obbiettivo di guadagnare qualcosa: “Ci pagavano 50 lire il giorno, quando la paga giornaliera di mio padre era di 12 lire”.
Per un po’ rimase a La Spezia. Poi, dopo una breve licenza concessagli per poter tumulare il padre, la partenza per l’addestramento: “Ci mandarono in Germania. Un giorno, si era tutti inquadrati in un campo, venne Mussolini a parlarci. In quel momento sopraggiunsero degli aerei nemici. Il Duce salì ugualmente sul palco e disse: ‘Camerati, siete schierati in maniera tale che non esito a definire superba’. Nonostante la minaccia degli aerei, nessuno ruppe le righe”.
Venne infine l’ora di battersi in prima linea: “Ci portarono verso Anzio, dove erano sbarcati gli americani. Combattemmo contro di loro nella zona di Nettuno, ma senza fortuna. Il nostro battaglione ‘Barbarigo’ ebbe 200 morti, 100 dispersi e 200 feriti su una forza complessiva di 1.180 uomini”.
Il battaglione si ritirò presso Roma, poi tentò di risalire verso il nord Italia, dove sarebbe stato impiegato nella repressione contro le bande partigiane. A quel punto Gigetto godette di una breve licenza e tornò a Città di Castello. Quando stava per tornare al corpo, fu colto da un bombardamento ad Arezzo: “Sopraggiunsero degli aerei dal Trasimeno e bombardarono la stazione. Ci salvammo saltando dietro un greppo; una bomba ci scoppiò vicino, il greppo ci riparò e ci cadde addosso solo del terriccio”.
Nel caos successivo al bombardamento, Gigetto decise di farla finita con la X Mas: “Vidi partire un trenino. Era quello della linea Appennino Centrale, che andava verso Città di Castello. Ci saltai su. Poi riuscii a tornare ad Acqualagna, dove si trovava la mia famiglia. Ormai ero un disertore, così dovetti nascondermi in campagna”.
Gigetto rimase ben nascosto nella campagna marchigiana fino alla liberazione di Acqualagna. Dopo di che, tornato a Città di Castello, gli si prospettò ancora il problema di mantenere la famiglia: “Sentii parlare dell’arruolamento nel Gruppo di Combattimento Cremona, che combatteva a fianco degli Alleati per liberare il nord Italia. Anche lì pagavano. Così mi decisi ad arruolarmi volontario”. C’era però la questione dei suoi precedenti con la X MAS. Venne risolta grazie all’interessamento di due autorevoli esponenti del movimento partigiano tifernate: Giuseppe Battocchi e Livio Dalla Ragione. Indagarono sul recente passato di Gigetto e si convinsero che non aveva fatto niente di male: “In effetti non avevo idee politiche. Come tutti i giovani di allora conoscevo solo il fascismo. E non ero per niente interessato all’attività dei partiti sorti dopo la guerra. L’unica cosa che mi interessava era guadagnare dei soldi per sopravvivere”.
Mentre si infoltiva la schiera dei volontari arruolati nel “Cremona”, in un clima di eccitazione si susseguivano a Città di Castello i “Veglioni dei partenti”. Gigetto ricorda bene quei momenti: “I veglioni, frequentatissimi, erano al Teatro Comunale. Suonavano i vecchi musicisti: Ugo Tofani, Beppe Benni, l’arrotino Felice Arcaleni… I veglioni servirono per conoscerci, per fare gruppo. Si sentiva l’ebbrezza della libertà. Sembrava che si era usciti da un incubo. Ora si era liberi di fare tutto. Vennero tante donne. In quei mesi vissero una fase di grande emancipazione, che si manifestò nel vestire, nei comportamenti, nell’uscire la sera. Ma me ne resi conto solo successivamente. Poi però quella libertà venne ridimensionata; ci pensò la Chiesa…”
Ai veglioni parteciparono anche i capi delle formazioni partigiane e coloro che avrebbero avuto ruoli di comando nel “Cremona”: “Il nostro mito era Stelio Pierangeli, il comandante della Brigata ‘San Faustino’: un uomo silenzioso, autorevole. Poi altri importanti punti di riferimento erano Livio Dalla Ragione, Aldo Pacciarini, Carlo Corsi e Giuseppe Battocchi, che sarebbe diventato mio ufficiale nel ‘Cremona’”.
Nel nutrito gruppo dei volontari tifernati del “Cremona” convivevano motivazioni diverse. Dice Gigetto: “Certo che gli ex partigiani avevano ideali chiari! Ma c’era anche chi, come me, aveva alle spalle solo l’educazione fascista e metteva quella divisa con l’unico scopo di guadagnare qualcosa. Naturalmente anche noi si era consapevoli che si dava un contributo per la lotta di Liberazione; però prevaleva l’aspetto utilitaristico. Ci si chiedeva quanto si veniva pagati ed era quello ciò che contava”.
I volontari del “Cremona” partirono all’inizio del 1945 su dei camion. Gigetto era inquadrato nella 3a compagnia del 21° reggimento: al suo fianco, gli altri due amici tifernati con i quali aveva condiviso l’esperienza nella X Mas: “Con la Cremona ci ritrovammo al fronte senza una vera preparazione militare. Combattemmo a Casa dei Venti, poi ad Alfonsine, ad Argenta e, alla fine, ad Adria”.
Fu guerra vera, che costrinse i tedeschi a ritirarsi dalla Romagna e ne accelerò la capitolazione. Una guerra per abbattere definitivamente il nazi-fascismo nella quale altri giovani immolarono le loro vite. Tra di essi il diciassettenne tifernate Gualtiero Perugini. Gigetto gli era vicino: “Gualtiero si sporse dalla trincea e fu fatto fuori da un cecchino”.
Lì in Romagna Gigetto e i compagni del “Cremona” dovettero combattere anche contro dei fascisti: “Ad Argenta ci trovammo di fronte un reparto fascista, con il capo della Provincia di Perugia, Armando Rocchi. Era di là del fiume e cercava di proteggere la ritirata di tedeschi. Si era sparsa la voce che con quei fascisti c’era un castellano che, durante il rastrellamento tedesco del maggio 1944, aveva fatto arrestare alcuni giovani, poi internati in Germania. Qualcuno di noi avrebbe voluto catturarlo per riportarlo a Castello a calci in culo”.
Invece non riuscirono a mettergli le mani addosso. Dopo la guerra quel fascista scappò in Sud America. I giovani tifernati che sopravvissero alla deportazione in Germania – quattro di essi morirono nei lager – non gli avrebbero mai perdonato il fanatismo con il quale guidò i tedeschi nel rastrellamento.
Gigetto non nasconde che dietro a certe sue scelte, oltre alla necessità di guadagnarsi da vivere, ci fosse anche un giovanile spirito di avventura. Non si spiega altrimenti il tentativo, qualche tempo dopo la Liberazione, di andare ad arruolarsi nella Legione Straniera francese: “E pensare che ero tutt’altro che un militarista… Ancora non avevo cominciato a suonare e alla Legione Straniera pagavano bene! Con un compaesano arrivammo a Nizza. Su per la strada che portava al centro di reclutamento della Legione Straniera, venimmo fermati dalla polizia francese: le nostre famiglia, disperate, avevano sporto denuncia contro la nostra fuga. Ci costrinsero a tornare”.
A distanza di tanto tempo le avventure di Gigetto, il suo cambiar casacca, la schiettezza con cui ammette di aver fatto certe scelte per guadagnarsi da vivere, possono destare stupore. Ma la sua vicenda contribuisce a capire lo sbandamento in cui si ritrovò una generazione di giovani nati e cresciuti nel fascismo: giovani costretti dalla storia a scelte radicali e drammatiche senza essere vissuti in quel clima di democrazia che è determinante per poter scegliere liberamente. E poi, ricordiamolo, quando avvennero i fatti descritti, Gigetto aveva 16-18 anni.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 15 novembre 2012 e pubblicata ne “L’altrapagina”, maggio 2014.
Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.