Italo Gentili era figlio di Giuseppe (1898-1980), esponente di spicco dello squadrismo fascista tifernate. Così ha raccontato il padre.
La famiglia di Giuseppe Gentili
Mio padre Giuseppe nacque il 4 febbraio 1898, secondo di 9 fratelli.
La nostra famiglia era piccolo borghese; aveva tre poderi, uno qui a Nuvole (Giardino), l’altro (Caiconsigli) a Pietralunga; il terzo non lo ricordo. Tre poderi dati a mezzadria. Parte del patrimonio era venuto dalla mamma di papà, una Belei, proprietari cospicui della zona sud. Invece i Gentili provenivano da Camerino. Il primo a venire fu Venanzio nel 1827, faceva il castrino.
Attitudine artistica
Beppe è nato con il dono del disegno. A 10 anni già disegnava con il carbone nella vecchia casa di via dei Casceri. Per questo entrò in contatto con il pittore Marco Tullio Bendini, suo primo maestro. Ho un ritratto di mio padre, a firma Bendini, a olio, su legno. Bendini lo indirizzò. Mio padre partecipò al lavoro di alcuni affreschi di Bendini al cimitero.
Ha fatto l’Accademia a San Marco, per la passione della pittura. Seguiva la corrente dei “macchiaioli”. Per tutta la vita ha detto: “Se io sono finito sul nascere è perché non puoi portare avanti nell’arte qualcosa che sta morendo”. Lui si sentiva macchiaiolo.
Gentili combattente
A 18 anni è partito volontario per la guerra. Poi ardito di guerra. In famiglia conserviamo i suoi stati di servizio.
Mio padre è stato un coraggioso, forse sprezzante della morte. Mi ha raccontato di aver visto la morte in faccia centinaia di volte. Se ne è sempre infischiato. Ciò nonostante è morto sul suo letto a 83 anni.
Raccontava che al ritorno dal fronte aveva assistito alla stazione di Firenze a manifestazioni di ostilità di fascisti verso i militari italiani.
Ha saltato solo una guerra, quella di Spagna, perché del ’38 dovevo nascere io.
Nella seconda guerra mondiale militò nella DICAT a Montecastrilli, come comandante. Da lì fu inviato a comandare la postazione di Porta Sant’Angelo a Perugia.
Squadrismo
C’è un episodio spiacevole del suo periodo squadrista. Una volta, in via dei Casceri, mio padre dovette scappare dai tetti, e lo presero a fucilate. Vennero da Arezzo, una squadra di rossi. Probabilmente per una ritorsione. Cominciarono a sparare, da sotto. Mio padre scappò dai tetti. Fu in quella circostanza che sua sorella, la Teresina, maestra elementare, si spaventò, fu talmente sconvolta dalla cosa che cominciò ad avere problemi psichici. Mio padre sentì sempre la responsabilità per quell’episodio che cambiò la vita di sua sorella.
Assassinio del segretario politico del Partito Fascista Ezio Torrioli
Mio padre fu coinvolto nella questione dell’uccisione di Torrioli. Iil suo avvocato personale era Carlo Zaganelli, che lo ha patrocinato nel periodo in cui il babbo restò in galera perché coinvolto nell’omicidio. Mi risulta che inizialmente non uscì il nome di Enrico Minciotti come autore dell’assassinio. Una specie di omertà. Mio babbo disse: ‘Se non si fa vivo da sé, io non faccio il nome’. Rischiò così di apparire lui come sparatore. Successivamente Minciotti ammise di aver sparato (anche perché il regime era forte e lo poteva coprire) e scagionò mio padre. Minciotti ne venne fuori poco più che impunito.
Emigrazione in Brasile
Nel 1925 mio padre fu espulso dal Partito Fascista e andò in Brasile, dove c’era già il fratello Gino. Andarono a San Paolo. Fece parte della loggia massonica Tiradente, una massoneria illuministica. Nel carattere di mio padre c’era una forte pulsione anarchica; era anche anticlericale. Era un credente all’acqua di rose e a modo suo. Nella sua concezione della religione metteva al primissimo posto San Francesco, era un suo devoto. Quando andò nel Mato Grosso al seguito di una spedizione scientifica inglese (disegnò animali), notò che gli indigeni, ex tagliatori di teste, conoscevano San Francesco.
Rimase in Brasile 10 anni. Tornò perché era negato da un punto di vista commerciale, a differenza dei fratelli. Aveva messo su una società per il caffè insieme a Gino; acquistavano caffè. Fu proprio in quel periodo che ci fu il famoso crollo del prezzo del caffè che mise a terra tutti in Brasile. Aveva il magazzino pieno di caffè, ma valevano più le balle di juta che il prodotto dentro, così mi raccontava. Tanto è vero che i chicchi di caffè finirono con il farci le strade; li buttavano sopra le strade e li rullavano, a mo’ di asfalto, con uno speciale impasto. Tornò anche perché era diventato cagionevole di salute. A San Paolo, per l’umidità, si cambiavano 4 volte al giorno. Chi non nasce lì si adatta malissimo. Poi gli prese il beri-beri (in Africa avrebbe preso poi la malaria); mancanza di vitamina.
Ritorno in Italia
Appena tornato in Italia, si è sposato. Iniziò così a dedicarsi alla vita sindacale. Fece dei corsi. È rimasto nel sindacato fino allo scoppio della guerra. Come sindacalista entrò in contatto con i Buitoni della Perugina. È stato anche direttore dell’ufficio di collocamento.
Sua moglie è una “patrizina”.Lo accusava di aver sempre pensato all’Italia e poco alla famiglia.
Ha avuto amici anche tra i comunisti. Ne ha tirati fuori diversi di antifascisti incarcerati solo perché avevano espresso qualche giudizio poco simpatico su Mussolini. Ha aiutato anche gli ebrei e da essi ha avuto dei benefici.
Beppe era coerente con le sue idee, ma anche molto critico. Diceva che bisogna saper vedere i difetti delle cose.
Mi diceva: “Ho visto accendere e spegnere i lampioni a gas delle vie di Castello; ho visto accendere la prima lampadina a Castello; e ho visto il primo uomo scendere sulla Luna: pensa se un uomo non può impazzire…”
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 28 agosto 2003. Testo coperto da copyright. Non riprodurre senza citare la fonte.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.