Gambuli all’epoca della Resistenza.
Il volume di Gambuli che racconta le sue vicende dalla Resistenza alla campagna bellica con il "Cremona".

Gambuli Settimio (Mimo). Dalla dittatura alla lotta partigiana

Il tifernate Settimio Gambuli (1922-2006), popolarmente noto come Mimo, è stato figura di spicco a livello regionale del partito comunista italiano non abita da tempo nell’Alta Valle del Tevere. Nel periodo bellico combatté da partigiano nella Brigata Proletaria d’Urto “San Faustino” e poi, come volontario, nel Gruppo di Combattimento Cremona. La sua generazione è stata educata in epoca fascista e il regime ha cercato di fare di lui, come di ogni altro giovane, l’italiano “nuovo”, integralmente fascista, devoto al principio del “credere, obbedire e combattere”. Ecco il suo racconto.

“Noi giovani si assorbiva la propaganda del fascismo. Si era come una spugna. L’educazione era quella, i libri di testo erano quelli. Ci furono momenti di adesione al regime. Quando ci fu la guerra in Abissinia, per l’Impero, io facevo le Complementari, facemmo scioperi, si andò in piazza… Si percepiva una adesione abbastanza vasta fra i giovani. Però io ci avevo questo confronto, in casa, che qualche volta mi portava a riflettere. Ho avuto questa fortuna”.
Tuo padre, il falegname Oreste Gambuli, detto Gamonchio, era notoriamente antifascista.
“Mio padre era un po’ socialista, un po’ anarchico: uno di quegli antifascisti artigiani che il 1° Maggio, al tempo del fascismo. lasciavano deserta la bottega, anche se non si poteva. Nel periodo del fascismo c’è un riavvicinamento fra i personaggi che erano socialisti, anarchici e personaggi che erano popolari, democristiani, dopo che nel 1919-1921 si erano combattuti aspramente. Ricordo che fra le amicizie di mio padre c’erano popolari come Trepiedi, come Lensi. Questi artigiani si ritrovavano insieme continuamente, anche perché alcuni erano insieme nei pompieri, nella Pubblica Assistenza. Si ritrovavano anche alle Cucine Economiche, dove aiutavano a servire i pasti ai poveri. Un collegamento fra antifascisti, determinato dai fatti concreti di ogni giorno. Uno stimarsi, un partecipare alla vita della città. Non un fatto politico”.
Le Cucine Economiche erano proprio in via Sant’Antonio, dove Gamonchio aveva casa e bottega. Nei mesi invernali vi si serviva un pasto caldo ai più poveri. Si trattava di un’attività assistenziale completamente basata sul volontariato, dalla raccolta dei fondi, alla cucina dei pasti, fino al servizio.
“Gli anni Trenta sono stati anni di crisi. A mezzogiorno c’era la gente che veniva a prendere il rancio alle Cucine Economiche. Erano tempi di miseria nera. Parecchi erano i ragazzini, che uscivano da scuola e arrivavano chi con la marmitta, chi con un contenitore di latta con il manico di filo di ferro. Venivano a prendere una o più razioni. Alcuni mangiavano lì. Qualche volta la fila arrivava fino alla piazza. Mio padre era tra quelli che davano una mano a mezzogiorno”.
Voi come stavate economicamente?
“Economicamente non stavamo malissimo, perché mettevamo insieme lo stipendio di una tipografa con le entrate, comunque magre, di un artigiano. I falegnami guadagnavano poco. Ricordo che si vedevano a bottega di mio padre – gli artigiani allora bevevano molto – e dicevano: ‘Quanto ci hai?’ ‘Io due soldi’ ‘E tu?’ ‘Io 4 soldi. E tu?’ ‘Io niente’ Alla fine riuscivano a mettere insieme i soldi per una bevuta. Questo era lo stato degli artigiani. Per poter acquistare la materia prima e lavorare, dovevano fare cambiali; se non riscuotevano, dovevano rinnovare le cambiali, pagando gli interessi. Tre mesi per tre mesi. Comunque fino alla guerra siamo stati bene: star bene voleva dire essere vestiti, avere un focolare dove ti scaldavi la sera, avere da mangiare a volontà, il che significava una minestra a pranzo, la sera il secondo, pane a volontà, qualche volta la carne. In via Sant’Antonio eravamo una delle famiglie che stavano meglio”.
Anche la mamma era antifascista, vero?
“Sì. Mia madre, Maria Marinelli, era una di quelle tipografe dello Stabilimento Lapi che avevano fondato la cooperativa Unione Arti Grafiche. Lei veniva da una famiglia socialista. Suo padre aveva due fratelli, i quali sono stati o bastonati dai fascisti o sono scappati in Francia. Questo era un ricordo nostro in famiglia. Mia madre veniva da questa famiglia”.
I tuoi genitori hanno mai manifestato le loro idee in famiglia durante gli anni del regime?
“C’è stato qualche momento di sfogo, però stavano molto attenti, perché per andare al confino non ci voleva niente. E i figli chiacchierano, possono portare in giro le cose sentite in famiglia. Quindi stavano molto attenti. Però ogni tanto qualcosa usciva. I ragazzini sono curiosi: una domanda, poi un’altra domanda. Una volta papà mio disse: ‘Stà a vedé che n chèsa mia nasce n fascista’. Ce la voleva con me che facevo troppe domande….”
In quali momenti i genitori antifascisti hanno cercato di far riflettere il figlio?
“Un po’ sempre; con una certa attenzione, ma un po’ sempre. Ricordo lo scontro con mio padre, che per me è stato salutare, durante la guerra d’Abissinia. Lui era ostile alla guerra, capiva… Anche mia madre. Lei mi raccontava del loro sindacato, quella C.G.L. – allora si chiamava così – alla quale era stata iscritta fino al 1926, fino al suo forzato scioglimento da parte del regime. Ci fece vedere una sua tessera del 1926 prima di morire. Qualcosa veniva da lei, qualcosa da mio padre. Però con grande attenzione”.
Sapevate, comunque, che vi era gente ostile al fascismo?
“Circoli antifascisti a Castello c’erano. Tra i falegnami credo che non ce ne fosse uno fascista. Tra i fabbri forse uno, due. Pochi anche tra i muratori. Ma gli antifascisti dovevano stare zitti. Camminavano per conto loro e si raccontavano le loro cose. Tu dovevi cogliere qualche battuta quando parlavano, tirarli su …”
Hai subito come tutti l’indottrinamento nell’ambito dell’Opera Nazionale Balilla?
“L’Opera Balilla l’ho fatta sempre di striscio. Non sono andato vestito da balilla. Mio padre rinviò la mia iscrizione all’Opera Balilla, perché inizialmente non era obbligatoria. Dopo però mi son vestito da avanguardista. Ci avevano passato la divisa gratuitamente. Per uscire di casa dovevo attraversare la bottega di mio padre; quando l’attraversavo vestito da avanguardista, mi vergognavo come un cane, con mio padre che mi guardava storto. Non diceva niente, al massimo un ‘Dove vai?’, ma con gli occhi diceva tutto. Comunque l’ambiente dell’Opera Balilla l’ho frequentato poco, anche da avanguardista. Parecchi ragazzi li vedevi in giro con la mantellina verde dell’Opera Balilla, perché avevano solo quella per coprirsi dal freddo”.
Che cosa ha fatto maturare l’avversione al regime fascista?
“Molte cose. È difficile individuarne una sola. Eravamo un gruppo di amici che aveva per forza la tessera del Fascio, ma eravamo più liberi di idee, ragionavamo, discutevamo. Io, Stanislao Segapeli – una figura di spicco, studiava molto –, Pietro Gaggi, i figli dell’autista Baglioni, e altri ancora. Avevamo opinioni diverse, c’erano anche scontri, però con grande rispetto; nessuno faceva la spia. Eravamo grandi amici; studiosi, ma anche aperti al divertimento. C’era Nemo Sarteanesi che studiava a Firenze e da Firenze portava anche lui un seme d’antifascismo, di cultura diversa. Ci portava la cultura dell’intellettualità fiorentina, non era l’antifascismo militante, ma un modo di fare, il respirare un clima che già era diverso dal fascismo. Prima del 1940 l’unico raggio, l’unica idea diversa è venuta da Firenze. Poi la guerra ha fatto esplodere una serie di contraddizioni. È stata comunque una maturazione molto lenta. Quando scoppiò la seconda guerra io era già in una posizione abbastanza critica”.
Come percepivate la liturgia fascista di adunate, manifestazioni “oceaniche”, culto del Duce e via dicendo?
“A mano a mano che maturavano le cose, c’era tra i giovani un distacco da queste cose tronfie, dalle sfilate… I dirigenti fascisti li vedevo lontani. Ma dovevamo stare attenti, perché rischiavamo qualcosa. Si doveva andare alle adunate, se no dovevi giustificarti. L’aspetto liturgico  del fascismo lo percepivamo come una grande scocciatura. Il sabato fascista era una grande ‘rottura’, alla quale cercavamo di sfuggire con tutti i nostri mezzi”.
L’avere cultura aiutava ad emanciparsi dal fascismo?
“Poco, perché a noi arrivavano le cose fasciste. Sentivamo però questa oppressione che stava livellando la società italiana. Iniziavamo a sentire la vuotezza della liturgia fascista. Un inizio di percezione. La vera percezione arriva con la guerra. La guerra delinea una netta demarcazione fra i giovani oltranzisti e tutta una massa di popolazione che inizia a sentire i disagi. Nel 1941-1942 ho fatto per un po’ l’impiegato in comune, provvisorio, addetto alle carte annonarie. In questi anni la guerra nelle città viene sentita in maniera forte: inizia a mancare tutto, ci sono problemi di alimentazione. Viene sentita anche nella campagne, perché i figli sono stati mandati a combattere chissà dove, mancano le braccia da lavoro. L’impiego in comune mi ha messo in contatto con la gente e ne percepivo l’ostilità alla guerra”.
Dove vi incontravate voi giovani e che tipo di vita conducevate?
“Era una città diversa. Devi partire dai rioni, dalle sassate che si facevano tra giovani di diversi rioni. Si faceva a castagnate. Molta della vita degli adolescenti era fatta di queste battaglie. E poi il Tevere. È stato un grande padre per me. Io e Stani avevamo una barca lunga 6 metri, stretta così, con quattro remi, che avevamo costruito da noi, con mio padre falegname. Ci navigavamo lungo il Tevere ed era come avere una Ferrari oggi. Usciti da questa fase dell’infanzia, delle sassate, delle castagnate, si entrava nei caffè. Il nostro caffè era l’“Appennino”. Una grande sala dove giovani e meno giovani giocavano a carte e a biliardo. La nostra iniziazione al mondo adulto. La domenica, con i soldi che avevi, o andavi al cinema o giocavi al biliardo. E nei caffè non si parlava di politica”.
Come hai vissuto la fase cruciale della guerra?
“Dopo aver lavorato in Comune, nel 1942 sono andato a fare il maestro. Non per passione magistrale, perché poi non l’ho fatto più, ma perché avevo fame; andare a insegnare in campagna voleva dire comunque mangiare. Sono andato a fare il militare nel 1943, perché con la licenza magistrale si doveva fare il corso allievi ufficiali, e per noi il richiamo è arrivato nel 1943”.
Cosa ti ha spinto verso la lotta partigiana?
“La molla che mi ha spinto ad andare alla macchia sono stati i bandi per l’arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale e per il servizio di lavoro con i tedeschi. Solo la molla, però, perché ormai provavo odio verso il fascismo. Odio per la nostra nazione rovinata. Tutti avevamo assimilato un forte amore per la patria, sia chi è andato con Salò, sia chi è diventato partigiano. Solo che loro sono andati con i tedeschi… Ecco la grande divisione tra noi, chi lottava per la libertà, chi per l’oppressione. Però questa forma di nazionalismo che ci era stato insegnato a scuola accomunava i giovani. Alla patria le volevamo bene. Noi pensavamo che i tedeschi la nostra patria l’avevano rovinata. Quando sono andato in montagna avevo vaghe idee sociali, ma non comuniste né socialiste: c’era invece questa idea della patria che era stata rovinata e tradita, e che dovevamo salvare. In montagna parlavamo poco di politica. Per le mie scelte politiche è stato decisivo il ritorno, dopo la guerra. Durante tutta l’esperienza partigiana c’era il tricolore, non il fazzoletto rosso”.

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 6 ottobre 2004 e pubblicata quasi integralmente ne “L’altrapagina”, ottobre 2004. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.