I primi tre anni di vita della Scuola Operaia avevano rafforzato le intuizioni di carattere culturale, didattico ed etico poste alla base del riuscito esperimento.
Innanzitutto il territorio di Città di Castello e la sua economia abbisognavano di un istituto professionale che contribuisse all’emancipazione di un gran numero di lavoratori manuali, non semplicemente di una elite: “Meglio cento operai che salgano un gradino, che un operaio solo che ne salga cento”. Pierangeli lo affermò con chiarezza: “Non si tratta quindi di creare una scuola che dia una istruzione professionale eccezionale a qualche mezza dozzina di operai, che possano per questa divenire dei capi officina, ma di creare una scuola che dia a numerosi giovani quella modesta e pratica istruzione professionale che l’industria e le esigenze moderne richiedono e che l’officina padronale rivolta alla produzione intensa e accelerata non può più dare agli apprendisti”. Una Scuola troppo specialistica avrebbe inoltre contribuito a incentivare “l’emigrazione dei più intelligenti operai con un depauperamento intellettuale e morale della città”.
Un altro principio basilare della Scuola Operaia era l’acquisizione di una professionalità che sapesse coniugare le moderne conoscenze tecnologiche con la raffinatezza del gusto, lo spirito di iniziativa con l’applicazione intelligente. Lo raccomandarono i promotori: “Oggi si domanda all’operaio più la testa che il braccio; alla forza bruta, operatrice, le scienze e la meccanica provvedono assai meglio del muscolo dell’uomo: oggi è necessario l’intelletto che guida e regola la macchina e l’apparecchio: l’uomo, non la bestia da soma. Si deve quindi provvedere a che i giovani delle nostre officine, dei nostri laboratori, dei nostri cantieri, delle nostre fabbriche, mentre in esse apprendono quotidianamente la pratica del mestiere, ne acquistino altrove, in una scuola ad hoc, la tecnica, i perfezionamenti, le cognizioni necessarie e la maniera di esercitarlo nel modo più elevato, più ricercato, più rispondente alle esigenze delle industrie attuali”.
Su questo tema si soffermò Giulio Pierangeli: “La Scuola prepara artieri degni dellatradizione gloriosa del Trecento e del Cinquecento e capaci di imprimere una linea di bellezza alle cose di uso quotidiano; e operai adatti alla moderna produzione industriale che al lavoratore chiede anch’essa non il logorante sforzo muscolare ma intelligenza aperta, cognizioni tecniche e spirito di iniziativa. Così essa diffonde civiltà e benessere, giovando oltre che agli operai alla generalità degli abitanti”.
Al successo della Scuola Operaia concorse la particolare attenzione posta affinché l’allievo la frequentasse volentieri, condividendone le strategie: “L’alunno, per affezionarsi alla scuola e per farsi vitale nutrimento delle nozioni impartite, deve continuamente vedere il rapporto stretto e indissolubile fra la scuola e la vita, fra l’insegnamento e il mestiere”. Scrisse Giulio Pierangeli: “[…] i giovani sono venuti fiduciosi e lieti ed hanno appreso coi fatti, senza bisogno di scriverlo sulla porta, che la nostra scuola educa e non tormenta, hanno capito che essa è stata creata e vivrà per illuminare le loro anime della luce del sapere, per dar loro quell’abilità tecnico-professionale che non avrebbero mai appreso nella patriarcale botteguccia dell’artigiano, né nella nascente officina per quanto meglio diretta e organizzata”.
Una simile impostazione richiedeva a ogni insegnante e a ogni istruttore di “essere una guida, non un dominatore”. La Scuola non doveva affatto imporre un “suo” programma di insegnamento, quanto invece seguire amorevolmente ogni allievo nelle sue esercitazioni, comprendendone i bisogni, assecondandolo nelle inclinazioni e facendone emergere i talenti. Ciò significava un gravoso impegno per personalizzare l’insegnamento.