Una stirpe di fabbri ferrai tifernati fu quella dei Mastriforti. Ebbe il capostipite in Pietro, detto “Castrabicchio”. Questi si inurbò da Promano nel sobborgo del Gorgone, prendendo in affitto la bottega del defunto collega, originario di Apecchio, Luigi Cagnoni. Si situava probabilmente all’odierno n. 47 di via De Cesare, indicato in un documento del 1859 come “Casa dei fabbri”. Il contratto di affitto, che risale al 1879, elenca dettagliatamente gli attrezzi nell’officina: un’incudine di kg 73, una morsa del peso di 40 libbre, una ruota di pietra completa di telaio alta m 1,90, larga cm 7 e fornita di manovella (“manfro”) in entrambi i lati, due mantici (“manici”), cinque martelli e sette tenaglie di varie dimensioni, tre mazze, una piccola incudine bicornia (“bicorgnula”), undici paia di zeppe di ferro, quattro spine, due “soste”, cinque “chiodare”, “un archetto per fare le mappe alle chiavi”, un paio di compassi (“comparsi”) di ferro”, due stampe di pietra e, inoltre, alcuni taglioli e punteruoli (“puntaroli”). Non si fa alcun accenno a travagli, a conferma della tradizione che indica proprio in Pietro Mastriforti colui che per primo costruì al Gorgone la struttura per ferrare i buoi poi usata anche dal figlio Angelo e, infine, dal nipote Settimio, conosciuto come “Bruciaferro”.
L’altro figlio di Pietro, GioBatta, tentò in un primo momento la produzione di aratri, ma fu poi costretto all’emigrazione in Argentina. Rimpatriato nel 1908, decise di riprendere l’attività di fabbro ferraio. Chiese l’autorizzazione a collocare un travaglio “nel punto ove esisteva quello del defunto Polpettini”, o nei pressi, e gli fu subito concessa l’area di fronte al torrione di porta Santa Maria, detto “torrione della cera”, al di là della strada di circonvallazione. Fu lì che prese a ferrare i buoi, mentre in officina si dedicava anche alla riparazione degli attrezzi agricoli. Qualche anno dopo, la pressione dei vicini lo avrebbe costretto a trasferire il travaglio proprio sotto le mura, ai Frontoni. GioBatta Mastriforti teneva a bottega, oltre ad alcuni garzoni, il figlio Renato. Questi, appresa l’arte del ferro battuto alla Scuola Operaia, si sarebbe poi distinto nel campo dell’artigianato artistico.
Emblematicamente, i travagli per la ferratura dei buoi si trovavano presso le quattro porte della città, al confine tra il mondo urbano e quello rurale. I Mastriforti si collocarono nelle vicinanze delle porte Santa Maria e Sant’Egidio. Nel sobborgo settentrionale del Cavaglione, fuori porta San Giacomo, operava Vito Vallini. Un altro travaglio lo collocarono intorno al 1932 in piazza del Mercato i fabbri di via San Florido, Domenico Smacchia e Francesco Busatti.
Vito Vallini era l’ultimo esponente di una lunga tradizione famigliare di fabbri ferrai. Nelle “cortine” del Cavaglione continuò la bottega già del padre Giacomo, del nonno Sebastiano e del bisnonno Domenico Antonio. Alla morte di questi, nel 1822, i figli Sebastiano e Giuseppe avevano ricevuto in eredità, oltre a del denaro, “una quantità di stili ad uso di fabbro del valore di scudi 30”. Allora abitavano in via Trastevere, ma avevano l’officina al Cavaglione. Giuseppe diventò bullettaio e il figlio Luigi ne riprese il mestiere; i figli di Sebastiano – Giacomo e Antonio – continuarono l’attività di fabbri ferrai. Il padre lasciò loro nell’officina “due mantici da fabbro, incudini, una morsa, una ruota, diverse mazze, martelli dodici con bicornia da chiodare, zeppe di ferro ed altri stili minuti”.
La trasmissione di Vallini in Vallini continuò nel 1906, quando Giacomo consegnò al figlio Vito gli attrezzi, gli utensili e i ferri occorrenti alla professione e tutta la clientela, promettendo di aiutarlo per quanto gli avrebbero consentito le forze fisiche e riservandosi il diritto “di poter usare a suo piacimento della piccola fucina da fabbro posta nella bottega”; in cambio, il figlio assicurava il sostentamento degli anziani genitori, obbligandosi “a passar loro quintali quattro e mezzo di grano all’anno e un terzo del ricavato dagli appalti dell’uva”. Dopo la Grande Guerra, spinto anche dalla necessità di recuperare una più ampia clientela, Vito ampliò l’attività della ferratura di buoi, istallando un travaglio nei pressi dell’officina. Quindi, a metà degli anni ’20, pur continuando a servirsi di quel travaglio, ritornò in via Trastevere, dove la famiglia originariamente risiedeva. Lì batteva l’incudine sotto un’ampia e caratteristica volta aperta sul vicolo e suscitava la curiosità dei bambini del rione, che talvolta si dilettavano a dargli una mano, tirando la catena del mantice.
Nel quartiere del Prato erano fabbri ferrai Francesco Busatti e Domenico Smacchia, conosciuti popolarmente come “Pesarino” e “Ciò”. Reduci entrambi da un periodo di emigrazione, l’uno in Argentina, l’altro in Francia, nel 1938 si associarono nella bottega di fabbro che Busatti aveva messo su, già da dodici anni, con i soldi risparmiati oltre oceano. Siccome Smacchia aveva dalla sua una notevole esperienza nella ferratura dei buoi, costruirono il travaglio fuori porta San Florido e si dedicarono soprattutto a tale attività e alla riparazione di attrezzi agricoli, specie falciatrici e trinciaforaggi.
Alla fine degli anni ’30 erano ancora pienamente in funzione i travagli di Rignaldello, del Cavaglione e di piazza del Mercato. Vallini aveva cessato l’attività, rilevata però nel 1939 da Secondo Conti. Aveva invece chiuso definitivamente l’officina di “Bruciaferro”, al Gorgone. La concorrenza dei numerosi fabbri di campagna, benché non sempre all’altezza di quelli di città, restringeva un mercato di per sé già povero.
Nel secondo dopoguerra, mentre la meccanizzazione dell’agricoltura, il declino della società mezzadrile e l’esteso abbandono dei poderi montani e collinari ridimensionavano progressivamente l’uso dei buoi come animali da lavoro, la ferratura dei bovini fu comunque praticata con una certa intensità fino a tutti gli anni ’60. A Città di Castello rimasero in funzione per gli ultimi clienti, fino a pochi anni fa, i travagli di Renato Mastriforti e di Secondo Conti.