Ferratura di buoi in un travaglio rurale.
Lavoro di ferratura di Antonio Marianelli.

Fabbri ferrai di campagna

Il censimento fiscale del 1851 faceva am­montare a undici i fabbri ferrai operanti nelle frazioni. La documentazione d’archivio permette di soffermarsi sui Ciangottini di San Se­condo e Falerno, specie su Tommaso, che la­vorò spesso nelle proprietà ecclesiastiche tra il 1843 e il 1857. Tommaso si trovò a dover continuare ancor giovanissimo l’attività del padre Luigi, sofferente di problemi psichici. Produceva le consuete ferrature per infissi e mobili, serrature, catorci e chiodi per le molteplici esigenze degli artigiani e delle famiglie coloniche della zona. “Riferrava” attrezzi agricoli e sapeva pure fabbricare chiavi, la qual cosa ne comprovava la perizia. Molta parte del lavoro consisteva nell’applicare ferri a buoi e muli. Nel 1855 mise in conto baj. 40 per “quattro ferri alla mula di Gustinelli”, baj. 24 per “quattro ferri da bovi per Ballino” e baj. 3 per una “mutatura alla cavalla”. Il pagamento raramente avveniva in moneta. Quell’anno ac­cu­mulò crediti per un totale di sc. 6,48; fu salda­to a pareggio con 400 mattoni della fornace di Falerno, di proprietà della Cattedrale, tre staia di granturco e solo baj. 33,5 in contanti. Tommaso raggiunse un’apprezzabile posizio­ne so­ciale a San Secondo; nel 1893, quando depositò il testamento, figurava come fabbro ferraio e possidente.
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Ancor prima dell’ultima guerra, nella campagna circostante era censita una gran quantità di fabbri agricoli. Così come i fabbri ferrai di città, riparavano gli attrezzi di lavoro e producevano i più comuni strumenti dei contadini. Spesso si spostavano di podere in podere e praticavano la ferratura a mano dei buoi nei luoghi di campagna dove mancavano i travagli. Dovevano pertanto raggiungere la clientela in ogni angolo della valle, specialmente nei mesi di più intenso lavoro nei campi. Ad esempio, Angelo Biccheri, fabbro ferraio di Grumale, tra l’aprile e il novembre del 1951 applicò 42 ferri ai soli buoi del podere di Ro­gni3; nello stesso anno, tra marzo e settembre, il colono di Pozzolo si servì tre volte di Emilio Giacomini, anche lui di Grumale, per 34 ferri complessivi.
A stretto contatto con la popolazione mezzadrile, questi artigiani ne condividevano la vita e, di solito, gli stenti. Erano retribuiti dai coloni per lo più in natura, con l’“appalto”; in molti casi dovevano attendere il tempo della battitura e della vendemmia, l’unico periodo dell’anno in cui i contadini avevano in mano qualcosa per estinguere i debiti.
Alcune ricevute rilasciate da fabbri ferrai ai coloni dell’Opera Pia “GioOttavio Bufalini” permettono di far luce sulla loro attività nei primi anni ’20. La tariffa era di L. 2 per ogni ferro applicato ai buoi. Nel 1924 Pietro Ludovici, di Pistrino, descrisse le diverse ope­razio­ni effettuate: “Messo un ferro – attacco a un buove per medicatura L. 5 – più a 2 buova accomodato tutte le unghie L. 5 – più al me­desimo [colono] venuto con le vacche messo un ferro con il rimbocchino e accomodato i piedi L. 5”.
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Nel dopoguerra le tariffe per la ferratura dei buoi subirono una costante lievitazione. Si ag­giravano sulle L. 25 a ferro all’indomani della Liberazione; crebbero a L. 50 nel 1946, a L. 80 nel 1947, a L. 100 nel 1948-1951, fino a L. 125 nel 1954-1955. Si tratta però di prezzi indicativi; un ferraio come Edoardo Piccinelli nei primi anni ’50 chiedeva circa L. 40 in me­no per ogni ferro. Quanto alla ferratura delle “micce”: Antonio Marianelli nel 1949 addebitava L. 125 per ogni ferro nuovo; nel 1955 la tariffa era arrivata a L. 200 per ferro e a L. 100 per ciascuna mutatura.
Nella loro modesta officina, i fabbri ferrai di campagna si dedicavano poi al lavoro di riparazione di attrezzi e macchine agricole. La documentazione dei primi anni ’50 permette di analizzare al dettaglio tale attività. L’usura degli strumenti da taglio e da penetrazione richiedeva la “ribattitura” di coltelli e roncole, falci e “spontoni” di erpici, vomeri (“go­mé­re”) e “coltelàci”, scalpelli (“scar­pè­li”) e zap­pe (“sappe e sappètti”). Nel 1951 Emilio Giacomini addebitò L. 150 per la ri­battitura di una “goméra”, L. 120 per un “coltelàcio”, L. 40 per “un sappètto”. Vi erano inoltre da riparare erpici, perticali (“pertichèi”), voltaorecchi, vomeri, falciatrici, trinciaforaggi e pom­pe. Così fatturò Edoardo Piccinelli: “Ac­comodato un erpici, fatto una fal­ci, messo n. 18 coltelli, accomodato un perticaio”; e Antonio Marianelli, nel 1949: “Mes­so una gomera al voltorecchio e n. 2 vite alle manecchie, L. 2.000; fatto uno spuntone al­l’erpice L. 150”. Le viti e i bulloni per le riparazioni venivano prodotti in officina.