Dino Marri all’epoca della testimonianza e in guerra.

Dino Marri. Dalle macerie di Pieve Santo Stefano al fronte con la “Legnano”

“Lei non ha idea di come era la Pieve. Abitavo in via Roma; della mia casa non c’era rimasto niente”. A rivivere ancora con angoscia il dramma del passaggio del fronte a Pieve Santo Stefano è Dino Marri. Allora aveva poco più di 17 anni. Tornando nel paese dopo che era stato liberato dagli Alleati, si trovò davanti a una devastazione immane. Con l’intento di lasciare solo ruderi al nemico in arrivo, i reparti tedeschi avevano distrutto completamente 272 case di abitazione; altre 29 erano state danneggiate gravemente. Non restavano che macerie di magazzini e stabilimenti industriali; tutti i ponti erano saltati in aria.
Marri era il più grande di quattro fratelli. Una famiglia di piccoli proprietari. Con il babbo Umberto, mutilato della Grande Guerra, e la madre Annina, vivevano con le rendite di due poderi della campagna pievana. Una gioventù vissuta in pieno fascismo: “Ero giovane fascista come tutti quelli della mia età. Si facevano i saggi ginnici, ci dava anche gusto. Il mio babbo però era antifascista. Doveva sopportarlo, il fascismo. E non gli dava certo piacere vedere me vestito da avanguardista e i  miei fratelli vestiti da balilla”.
Durante l’estate del 1944, mentre il fronte bellico risaliva l’Alta Valle del Tevere, i Marri si rifugiarono prima nella loro proprietà di Pietranera, presso Mignano; poi, a tappe, attraverso il territorio di Caprese, s’avvicinarono alle truppe alleate che avanzavano. Le incontrarono a Ponte alla Piera.
Come tutta la popolazione sfollata nelle campagne, vissero situazioni di grande pericolo, presi in una morsa tra due eserciti che si combattevano: “Di problemi con i tedeschi ne abbiamo avuti, accidenti! I miei fratelli erano più giovani e si muovevano più liberamente; così andavano in giro a cercare la legna per scaldare il forno e cuocere il pane. Io correvo il rischio di essere preso e deportato. Me lo aspettavo da un minuto a quell’altro. Così stavo allerta, mi portavo nei punti più impensati per non dare nell’occhio; ma i tedeschi frugavano dappertutto. Era pericoloso andare al bosco, perché lì ti sparavano di certo”.
I Marri sfuggirono dunque all’altra tragedia subita dalla popolazione urbana di Pieve Santo Stefano: la deportazione in massa in Romagna, oltre la Linea Gotica, per evacuare il paese prima della sua distruzione. Ma se rastrellato dai tedeschi in campagna, Dino – ormai in età di lavoro – correva il rischio di essere impiegato nel lavoro coatto nei cantieri germanici per il completamento della “Gotica”, tra Badia Tedalda e Verghereto.
Tornati a Pieve Santo Stefano liberata, i Marri vissero quindi la scioccante esperienza di vedere anche la loro casa in macerie. Pure la casa di campagna di Pietranera aveva subito gravi danni. Sperarono di sistemarsi in quella più piccola di San Lorenzo, che era ancora in piedi. “Però – racconta Dino – quando siamo arrivati noi, la casa era tutta occupata da sfollati della Pieve. Loro  erano autorizzati a stare lì e avevano occupato le stanze migliori. A noi, che si era i padroni di casa,  toccò sistemarci in una stalla”.
In quel periodo, tra fine settembre e inizio ottobre 1944, giunse a Pieve un ex comandante partigiano di Arezzo, Aldo Donnini. Fece propaganda fra i giovani affinché si arruolassero nei Gruppi di Combattimento italiani, che avrebbero continuato la guerra a fianco degli Alleati per la completa liberazione dell’Italia. Marri fu tra i pievani che decisero di arruolarsi: “Visto che il paese era tutto distrutto – non ci s’aveva né case, né tetto… – si partì. Quando ho detto che andavo al fronte, la mia mamma cominciò a piangere…”. Nel ripensare a quel momento, e alle lacrime della madre, Dino ancora si commuove:  “Chissà che credevo di fare… Però non ho sbagliato a partire, perché in quel momento s’aveva odio contro i tedeschi…”
Forse che, in quella miseria, fosse da stimolo la paga da soldato? “No – sostiene Marri –, di paga  ci davano quattro soldi e tre sigarette; non sono partito per quello. È che noi giovani si aveva la stessa motivazione: c’era un pochino d’odio per questi tedeschi…” Non si può però escludere che le condizioni di indigenza siano state una delle molle che spinsero ad arruolarsi: “Qualcuno forse è partito anche per fame. La mattina ci davano il caffè buono; lo zucchero non mancava. E a mezzogiorno pastasciutta condita molto bene, buona!” A Marri brillano ancora gli occhi nel ripensare a quel rancio militare così buono e abbondante dopo mesi di ristrettezze.
Giunse il momento della partenza: “Un giorno arrivò un camion. Ci caricarono sopra, a noi della Pieve. Era fine settembre, inizio ottobre. Ci hanno inquadrato nel Gruppo di Combattimento ‘Legnano’. Insieme a me c’erano Giuseppe Crescioli, Silvio Franceschetti, Virgilio Senesi e Aurelio Pellegrini, che partì con me ma poi andò con il Gruppo di Combattimento ‘Cremona’”. Fu il primo nucleo di pievani a partire. Ne seguì un secondo, che si aggregò interamente al “Cremona”: ne facevano parte Armando Cangi, Francesco Manfroni, Augusto Mencherini, Piero Pagnoncelli, Luciano Rossi e Terzilio Seri. Era nel “Cremona” anche il pievano Bruno Cipriani, che morì nel gennaio 1945 presso Ravenna.
Quelli della “Legnano”, con Marri, si addestrarono tra Toscana e Meridione. Quindi, nel gennaio 1945, l’invio in prima linea: “Ci mandarono a dare il cambio a un reparto della Quinta Armata a Monterenzio, a cavallo del fiume Idice, vicino a Bologna. Ero in artiglieria – 11° reggimento artiglieria ‘Legnano’ – e facevo parte del secondo gruppo di cannoni campali da 88/27. Stavo nel reparto comando, insieme un maggiore, a un sergente maggiore e a un caporale. Dovevamo individuare con precisione la posizione del bersaglio da centrare. Eravamo molto bravi, anche per la grande esperienza che aveva il nostro maggiore: dopo il primo colpo, che era d’assestamento, con il secondo facevamo centro! Una volta ci venne a dare un encomio il gen. Clarke in persona”.
Come tutti i reduci dalla guerra, Marri mantiene ricordi assai vividi dei combattimenti al fronte: “Mentre si saliva a Monterenzio, il camion si fermò, si ruppe la cinghia del ventilatore. Il camion rimase allo scoperto, in piena vista dell’osservatorio tedesco. Cominciarono a cannoneggiarci… Il nostro camion era pieno di munizioni, che se disgraziatamente lo prendono… Io e il sergente maggiore ci andammo a riparare tra i solchi di un campo. Arrivavano cannonate che tritarono tutto. Mentre si era stesi sul campo, il sergente maggiore cercava di riparare con il suo elmetto la mia e la sua testa”. La morte incombeva sui combattenti: “La nostra terza batteria è stata colpita due volte; la prima quando si entrò sulla linea del fronte; l’altra volta mentre ci portavano il rancio. Fortunatamente in quelle circostanze eravamo al riparo. Ma durante la guerra avemmo anche dei morti”.
Sfondate le difese tedesche sulla pianura padana, la “Legnano” incalzò il nemico fino a Brescia. La guerra era finalmente finita, l’Italia – con l’intera Europa – liberata dal nazi-fascismo. Ma la gioia per la vittoria fu assai temperata dalla brutta notizia che giunse da casa. Era morto suo padre. Il telegramma ci mise qualche settimana per raggiungere il reparto.
Marri si trovò così a dover prendere in mano le sorti della famiglia: “Io ero il figlio più grande e la mia mamma faceva fare tutto a me. Da quel momento dovetti pensare all’amministrazione dei nostri due poderi”. Trovò una situazione sconvolgente: “I tedeschi avevano razziato tutto. A Pietranera ci portarono via 70 pecore, 19 o 20 maiali e 22 bestie vaccine; il pollame era già sparito tutto prima”. Quello dei Marri era il dramma che viveva l’intera popolazione rurale di Pieve Santo Stefano. Alle case distrutte, si aggiunse la perdita della produzione agricola dell’estate 1944 e la depauperazione del patrimonio zootecnico. Infatti a causa della guerra andò perduto l’80% del raccolto di grano, il 95% di patate, il 98% di granturco; e per le requisizioni e razzie tedesche mancava il 78% del bestiame bovino, l’85% dell’ovino, il 97% del suino e il 95% dell’equino.
Bisognava ricominciare da capo, con coraggio e con speranza: “Siamo ripartiti con una manza, che il mio contadino  riconobbe a Bulciano. Era nelle mani di un vicino; andò lassù e se la riprese. Se ne comprò subito un’altra; ci costò 59 mila lire. Poi si acquistò una maialina gravida: ci fece 11 maialini…”.
Intanto c’era da affrettarsi per avere un tetto prima dell’inverno: “Per risistemare la casa di via Roma ho dovuto fare da solo. Lavoravo io da manovale. Si trovava qualche muratore discreto, a un prezzo buono, e si andava avanti. Si faceva una parete per volta, un pezzetto oggi, un pezzetto domani, per avere al più presto una copertura. L’inverno del 1945-1946 l’abbiamo così potuto passare qui alla Pieve”.
Come i Marri, dovettero sgobbare tutti i pievani, che tornavano dalla deportazione e non trovavano che macerie: “Ci si dava una mano, ma ognuno doveva pensare alla propria situazione. Oddio, l’amicizia era amicizia, se si aveva qualcosa da dare la si dava a un amico. Però c’era tanto poco da dare…”
Aiuti finanziari da parte dello Stato? Marri sorride: “Per quanto riguarda la casa, niente. S’ebbe un risarcimento per un’altra nostra casa che si ricostruì; ma una miseria. Per il bestiame razziato, lo Stato ci indirizzò all’Ufficio del Registro per riscuotere sulle 20 mila lire appena: la mia mamma nemmeno le volle…”

Testimonianza raccolta il 15 marzo 2015 e pubblicata ne “L’altrapagina”, aprile 2015.
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