Dopo la guerra, delle commissioni regionali ebbero il compito di attribuire riconoscimenti ufficiali a partigiani combattenti e ai patrioti. La qualifica di patriota spettava a quanti avevano sostenuto in qualsiasi modo l’attività delle bande partigiane. Gherardi Dindelli è uno di questi.
Classe 1924, di Sansepolcro, Gherardo aveva in famiglia il babbo socialista, Cammillo, ma pure uno zio “squadrista sfegatato”. Quando giunse l’ora delle scelte, non ebbe dubbi e si schierò col padre. Eppure apparteneva a quella generazione, nata e cresciuta nel fascismo, che non poteva avere solide idee politiche alternative e la cui partecipazione alla Resistenza fu un processo graduale.
Gherardo era militare a Siena. Tornato a casa dopo lo sbandamento dell’8 settembre 1943, insieme a degli amici si rese protagonista di un gesto temerario: “A Sansepolcro c’era la sezione della scuola per carristi di Civitavecchia. Avevano i carri armati giù al ponte del Tevere. In ogni carro c’era una mitragliatrice da 20 millimetri. Con Dino Gennaioli si disse: smontiamone una e portiamola a casa. Ma senza sapere cosa farne. L’abbiamo portata a casa mia. Il mio babbo l’ha nascosta nel fondo fra la legna. Ancora nessuno parlava di andare alla macchia”.
Tra i giovani che trafugarono quell’arma c’era il diciassettenne Eduino Francini: “Quando si smontò la mitragliatrice, non si parlò di lotta armata. A me Eduino non ha mai detto che voleva formare una banda. Quando ho saputo che era a capo della banda di partigiani di Sansepolcro, mi sono meravigliato; perché era un ragazzo timido, tranquillo, tutto preso dalla marina. C’erano ragazzi molto più arditi di lui”.
Francini era di La Spezia, ma viveva a Sansepolcro con dei parenti. Sognava la vita di mare e per questo s’era arruolato volontario nella Marina Militare. Poi fece ben altre scelte: fu lui a promuovere la banda partigiana che si rifugiò sull’Alpe della Luna. Avrebbe trovato la morte nel marzo 1944, fucilato insieme a otto compagni di lotta a Villa Santinelli di San Pietro a Monte.
Quando ancora la Resistenza era allo stato embrionale, per non tornare a fare il soldato Gherardo si nascose da un contadino a Brancialino: “Certo che sapevo che c’erano i partigiani in montagna, ma non m’è mai venuto in mente di andare con loro”. Per lunghi mesi rimase dunque uno “sbandato”, uno di quegli ex militari che “si imboscarono” per non rispondere ai bandi di richiamo alle armi e di servizio obbligatorio di lavoro.
La sera del 7 aprile, Venerdì Santo, tornò alla chetichella per rivedere la famiglia. Quella stessa notte i fascisti arrestarono suo padre: “L’hanno preso per via di quella mitragliatrice. Chi aveva fatto la spia? Lui mi disse che una sera erano venuti a prenderla il Francini e altripartigiani: Alvaro Cheli, Giuseppe Gobbi e il famoso Ermete Nannei, chiamato “Cinque”. Poi morirono tutti a Villa Santinelli tranne Nannei. Quindi chi poteva aver fatto la spia, se non Nannei?”
In effetti si disse che il fiorentino Nannei, catturato al termine della battaglia di Villa Santinelli, era stato portato a Perugia e, per aver salva la vita, aveva fatto i nomi degli antifascisti di Sansepolcro.
Il babbo di Gherardo si ritrovò in cella con altri vecchi socialisti e genitori di partigiani alla macchia: i padri di Arioldo Arioldi, di Adriano Pigolotti, di Silvio Berghi e del fornaio Duilio Alessandrini. Cammillo Dindelli rimase in carcere ad Arezzo più degli altri per un fatto curioso: “Lui era un amante dell’orto. La sera prima che l’arrestassero, aveva messo a germogliare nella stufa i semi di zucca. Allora il mio babbo scrisse dal carcere alla mamma, senza sapere che la posta veniva censurata: ‘Assunta, togli quei semi di zucca, che saranno germogliati’. I fascisti credettero che si trattava di un messaggio in codice. Dicono che allora intervenne mio zio Valentino, il fascista, spiegando che il mio babbo aveva davvero la passione dell’orto”.
Mentre il padre era detenuto ad Arezzo, Gherardo rimase nascosto in casa per 17 giorni. Per sfuggire a possibili ricerche, la notte dormiva da un vicino. La madre viveva nell’angoscia, con il marito in carcere e il figlio ricercato. Allora Gherardo si fece assumere dalla “Todt”, l’organizzazione tedesca che reclutava giovani per lavori di interesse militare sul territorio italiano. Stando nella “Todt”, era esentato dall’arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale. Ebbe così per lui inizio un periodo di lavoro vicino ad Arezzo. Di giorno riparava la ferrovia bombardata, la sera tornava in treno a casa.
Una sera la furia fascista si abbatté sui quei giovani a Molin Nuovo: “Il nostro treno si fermava lì in attesa di incrociare un altro da Sansepolcro. Vicino alla ferrovia c’era una fontanella; ma si aveva poco tempo a disposizione e bisognava correre se si voleva bere. Quella sera, appena arrivati alla stazione, si vide i fascisti della Compagnia della Morte. Ma non si pensava di correre qualche pericolo. Come succedeva sempre, chi aveva sete si è messo a correre verso la fontanella. Erano 3 o 4. I fascisti hanno pensato che cercavano di fuggire e hanno sparato. Risento ancora le parole dell’ufficiale: ‘Spara, per Dio!’ Colpirono con una raffica di mitra Angiolino Biagioli, che abitava qui vicino. Dal finestrino ho visto tutto, l’ho sentito che si lamentava: ‘Oddio, oddio..!’ Non andò a soccorrerlo nessuno”.
Biagioli morì per le ferite. Poi i fascisti si accanirono contro i giovani lavoratori; li odiavano perché l’autorizzazione della “Todt” permetteva loro di eludere il richiamo alle armi: “Quelli della Compagnia della Morte, tutti giovani ed esaltati, aprirono gli sportelli e, a uno a uno, ci fecero scendere e ci disposero a gruppetti. Chiesero i documenti e vollero vedere di che classe s’era. A quelli, come me, delle classi richiamate alle armi ci ‘carcarono’ bene bene. A me mi ferirono con un calcio di moschetto sul calcagno; avevo i calzoni alla zuava tutti sporchi di sangue”.
Per Gherardo ci fu un nuovo periodo di lavoro verso Arezzo; quindi la fuga, il ritorno a casa e un nascondiglio sicuro su per la strada verso Montagna. E dette una mano al padre, che aveva continuato a sostenere i partigiani: “Li ha aiutati ancora di più dopo che è tornato dal carcere. Ha raccolto qualche moschetto e munizioni”.
Un giorno che lui e il padre le stavano portando ai partigiani su una carriola, appena coperte da una balla, ebbero la sventura di incontrare dei tedeschi: “In quel momento ho visto la morte in faccia. Ci venne incontro un tedesco alto, i capelli brizzolati, una maglina bianca con le bretelle. Per fortuna quel soldato fu mandato dal cielo: era tranquillo e gentile; se veniva un altro, sfacciato, che sollevava la balla… Lui ci disse che non si poteva proseguire: ‘Niente spazieren, niente spazieren’. Si rispose, con la voce quasi balbuziente: ‘Noi portare viveri a famiglia sfollata…’. Allora il soldato si consultò con gli altri e ci fece passare”.
Il giorno che salì a Montagna con l’amico Dino Gennaioli per consegnare ai partigiani una pistole-machine tedesca recuperata a Sansepolcro, Gherardo fu testimone di un evento drammatico: l’uccisione di Ermete Nannei, nome di battaglia “Cinque”: “Troviamo ad aspettarci Adriano Pigolotti, Francesco Marcelli, Leonardo Selvi, Orlando Pucci e Athos Fiordelli. Ci dicono: ‘C’è Cinque, c’è Cinque! È nella bottega di Baffino’. In quella casa, c’era al pianterreno una specie di spaccio. Entriamo. ‘Cinque’ era voltato verso il banco, con una giubba di velluto sulle spalle, con una cosa qui, una stella gialla, con la falce e martello rossi. Io e Dino Gennaioli si dice, puntando la pistole-machine: ‘Mani in alto, Cinque!’ Lui si gira verso di noi, sorridendo, e fa: ‘Ma che fate?’ Rispondiamo: ‘Noi si fa sul serio!’ E lui: ‘Se non fossi stato sicuro di me, non sarei ritornato qua, fra voialtri’ Noi si ripeté: ‘Mani in alto, Cinque!’ E lui le alzò. Aveva una Mauser tedesca, non ricordo chi lo disarmò”.
Nannei fu portato in un capanno; non era solo sospettato di aver provocato la cattura degli antifascisti di Sansepolcro; lo accusavano pure di aver rubato per proprio conto durante requisizioni partigiane di cibo e vestiario: “Qualcuno, dentro al capanno, chiese a Marcelli di andare a pigliare un foglio di carta e una penna. Volevano raccogliere la testimonianza di tutta la roba che ‘Cinque’ aveva rubato, anche argenteria, e dove l’aveva nascosta; roba che dopo la guerra fu ritrovata a Montevicchi. A un certo momento ‘Cinque’ disse: ‘Volete anche il portafoglio?’ Gli si rispose: ‘Ma che discorsi sono; non siamo mica borsaioli!’ Lui insistette per consegnarci il portafoglio. Invece nella tasca ci aveva un’altra pistola, la tirò fuori e sparò a cianfo, verso di noi. Prese Athos Fiordelli a un braccio. A quel punto un altro partigiano intervenne immediatamente, con la pistole-machine: pam, pam, e ‘Cinque’ cascò in terra, ucciso”.
Nel mese di agosto Gherardo fece parte della milizia civica che, mentre Sansepolcro si trovava in una specie di terra di nessuno, tra tedeschi in ritirata e alleati ancora a qualche chilometro di distanza, impugnò le armi per difendere la città da incursioni germaniche e garantire di che vivere alla popolazione intrappolata nel centro abitato: “Ho aderito subito, senza avere un ruolo particolare. Ho fatto il soldatino; una notte di guardia lì, un’altra sera di là. Ero armato con una semplice pistola a tamburo, calibro 9; ma la notte mi davano un moschetto quando stavo di guardia. Ero presente quando i tedeschi hanno provato a entrare col tritolo. Ho partecipato anche allo scontro a fuoco a porta del Castello. Sono pure andato con gli altri a San Lazzaro, una domenica, a liberare la gente imprigionata. Non ci fu una grande sparatoria, ma lì tedeschi ebbero paura, noi si era parecchi”.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 4 agosto 2014 e pubblicata ne “L’altrapagina”, ottobre 2014. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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