In epoca fascista, il regime dittatoriale fece piazza pulita della democrazia anche a livello locale. Basta con le elezioni amministrative, basta con i consigli comunali, basta con i sindaci! Così, a capo delle città, venne posto un podestà. Lo nominava il prefetto, cercando di trovare una persona che conoscesse i problemi del posto, avesse un po’ di esperienza amministrativa, fosse stimato dalla popolazione e non creasse problemi dal punto di vista politico.
A Città di Castello i podestà furono sette: Luigi Mignini, Dario Nicasi Dari, Antonio de Cesare, Enrico Ruggieri, Baldassarre Rondinelli Vitelli, Amedeo Corsi e, al tempo del fascismo repubblicano, Orazio Puletti. Quattro di essi – Mignini, Nicasi Dari, Rondinelli Vitelli e Amedeo Corsi – erano proprietari terrieri; gli altri appartenevano al ceto borghese e professionale.
Nella sua villa di Belvedere, vive il prof. Raffaele de Cesare, figlio del podestà Antonio. La villa la costruì nel 1889 un altro Raffaele – il nonno – che fu illustre storico e senatore del regno; e amico di Scipione Lapi, che da buon ingegnere gli progettò la dimora estiva e da bravo tipografo ed editore gli stampò alcuni importanti volumi. Da allora la villa divenne la residenza estiva della famiglia.
Quando Antonio de Cesare divenne podestà, nell’agosto del 1934, aveva già 57 anni. Brillante avvocato di diritto civile e amministrativo, si era dedicato al giornalismo, collaborando con importanti testate e riviste di Roma, Torino, Bologna, Napoli e Venezia. Era stato tra i fondatori dell’Associazione Nazionalistica e aveva combattuto come ufficiale di artiglieria nella Grande Guerra. Nel dopoguerra aveva militato nel Partito Popolare. Dopo aver lasciato il giornalismo e l’avvocatura, era diventato apprezzato manager: fu lui a lanciare la stazione balneare di Rimini e a fondare quella di Ostia, meritandosi l’apprezzamento di Mussolini. Era stato pure primo cittadino di Frascati.
Insomma, nominando Antonio de Cesare, il prefetto sceglieva la persona giusta per risolvere i problemi di Città di Castello, che da anni lamentava la poca attenzione del regime nei confronti di questo sperduto angolo dell’Umbria. Ma de Cesare si ritrovò in mano una patata bollente.
Ricorda il figlio Raffaele:
“Mio padre non stava molto bene fisicamente. Molta gente non intendeva nemmeno farlo il podestà; erano seccature e basta; perdita di tempo. I podestà non prendevano una lira; non è che si fosse pagati per ricoprire quella carica. Trovare un uomo che lo facesse con una certa eleganza, con una certa competenza, non era facile”.
Ma come mai, un uomo come lui, che aveva militato nel Partito Popolare ed era stato candidato a Città di Castello nelle politiche del 1919, si ritrovò poi a ricoprire cariche nel regime fascista? Essenzialmente perché – come tanti moderati – aveva visto nel fascismo il movimento in grado di salvare l’Italia dall’inettitudine del ceto dirigente di allora e dalla possibile deriva rivoluzionaria.
“Mio padre – ricorda Raffaele – era di quelli che amavano soprattutto l’ordine. Lei sa quello che successe nel 1919 e 1920, subito dopo la Grande Guerra, quando i contadini andavano in giro con il forcone contro i proprietari! Non che lui fosse un proprietario terriero, comunque: quel pezzo di terra che abbiamo qui intorno è buono giusto per seppellirci…”
Raffaele era un adolescente allora. Ma a riportarci a quei tempi è l’archivio di suo padre che, da serio studioso quale è, ha saputo conservare e mi ha lasciato generosamente consultare.
Un ritaglio di cronaca locale dell’agosto del 1934 dà un’idea di quanto malcontento ci fosse allora a Città di Castello e di come, anche in tempo di dittatura, qualche critica si riuscisse a esprimere:
“La nostra città che un tempo era considerata fra le prime della Regione, oggi si trova negletta, al di sotto degli ultimi paesi; e ciò per i mancati aiuti e per la eccessiva considerazione delle gerarchie superiori che, ritenendola ricca di energie e di uomini combattivi e volenterosi, hanno sempre pensato che potesse risolvere direttamente senza aiuti la propria crisi”.
Ancor più esplicite sono le lettere di augurio che gli inviarono alcuni noti tifernati. Il commerciante Antonio Buitoni: “Che tu possa fare per la nostra dimenticata città tutto quello che è possibile e che non hanno saputo fare i tuoi predecessori”. Il libraio Giuseppe Paci: “La Tifernate esulta per veder esaudito un suo ardente desiderio… Il morale cittadino si è rasserenato ed una speranza inconsueta si legge nel viso dei tifernati quando non la si sente a viva voce”. Il direttore della Cassa di Risparmio Aldo Fanfani: “Questo decadimento morale e materiale di Castello è ora che finisca! Io son certo che lei potrà far molto per far finire questo stato di disagio, e per iniziare il periodo della resurrezione… Nel nuovo fervore di opere, a vantaggio della nostra città, Lei è il podestà che ci voleva. Al lavoro!” E Gaetano Pirazzoli, presidente dell’Associazione Combattenti: “Questa povera città che ha sempre dato e mai nulla le è stato dato, possa risollevarsi dallo stato di decadimento in cui si trova!”
Antonio de Cesare, nel rispondere a Pirazzoli, dette voce al suo piglio combattivo: “Siamo in tempo ancora a chiedere un po’ di benevolenza? Ne dubito! E bisognerà – come facemmo in guerra – arrangiarci con le nostre unghie. E questo faremo, ad ogni costo”.
In effetti de Cesare non stette con le mani in mano. Nel giro di pochi mesi Città di Castello visse un periodo di rinascita: vi fu la prima edizione della Mostra Mercato del Mulo (antenata dell’odierna Mostra del Cavallo), il primo Concorso Ippico Nazionale, l’Esposizione dei Quadri Tifernati del ‘700, la Celebrazione Belliniana, il tentativo – infruttuoso – di rivendicare a Città di Castello la proprietà dello “Sposalizio della Vergine” di Raffaello e l’altro tentativo – anch’esso affossato tra resistenze politiche e ostacoli burocratici – di ridare alla città l’antico nome di Tiferno.
Un ictus, nel giugno del 1935, costrinse de Cesare alle dimissioni. Non riuscì a portare a compimento tutti i suoi ambiziosi progetti. Così lo ricordava Piero Busatti, a quell’epoca corrispondente de “La Tribuna” e dirigente del Dopolavoro:
“Antonio de Cesare era davvero in gamba: un lusso per Castello se fosse rimasto. Anche perché uno come lui a Roma era molto considerato…”
Però il suo podestariato fu egualmente importante. Grazie a lui i tifernati recuperarono fiducia in se stessi. E ciò era essenziale, perché sulle loro energie avrebbero dovuto fidare. Inoltre quello che aveva seminato de Cesare lo raccolse un altro valido podestà, Enrico Ruggieri. Le più importanti opere pubbliche realizzate in epoca fascista le avrebbe inaugurate lui.
Articolo pubblicato ne “L’altrapagina”, luglio 2005. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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