Dante Fontanelli. Al fronte con il “Cremona”

Nell’estate del 1943 Dante Fontanelli era militare in Corsica: caporal-maggiore addetto al goniometro, lo strumento per indirizzare i colpi dei mortai. Di quel periodo ricorda i rapporti camerateschi con gli alleati tedeschi, la fame (“noi soldati avevamo problemi seri di alimentazione; non gli ufficiali, né i fascisti, loro mangiavano…”) e un certo magone addosso: all’età di 22 anni era già orfano di padre e madre e aveva a casa due sorelle più giovani.
Veniva da una famiglia di popolo: padre operaio, madre cuoca e aiutante dello zio in un’osteria in via di Bindo. Gente non apertamente antifascista: “Però succedevano cose che ti portavano a odiare la dittatura. Se ne parlava in casa. Nella nostra osteria una sera è entrato uno squadrista e ha costretto Leone Iacobelli, un vecchio antifascista, ad andare a letto. Un’umiliazione… Un’altra volta ho visto con i miei occhi un fascista dare uno schiaffo violento a un  povero contadino che non si era tolto il cappello mentre sfilava un loro corteo. Cose che rimanevano impresse in un ragazzino come me”.
Dante, come a tanti altri giovani dei ceti più popolari, si era interessato poco anche dell’Opera Balilla: “Ci sono andato solo per ritirare i calzoncini corti e la maglietta. Non andavo nemmeno ai corsi della premilitare, che era obbligatoria. Finché un giorno la mia mamma non si vede arrivare in casa i carabinieri…”
L’8 settembre 1943, in Corsica, Dante si illuse che la guerra fosse finita. Poi un ufficiale fece capire all’ingenua truppa come stessero davvero le cose: “Ma che esultate… L’armistizio lo abbiamo firmato noi italiani, mica i tedeschi…”
Di fatti gli ex-alleati si rivoltarono contro i malcapitati italiani: “Ci vediamo venire contro cinque o sei panzer tedeschi: una cosa mai vista, enormi rispetto ai nostri, che al confronto sembravano delle carrette, bastava una sassata per buttarli giù… Li abbiamo affrontati con semplici mortai e con cannoncini anticarro, che però nemmeno scalfivano la loro corazza. Abbiamo resistito un po’, ma non ce l’abbiamo fatta a reggere. Parecchi di noi sono morti. una settantina siamo riuscite a sfuggire alla cattura”.
Dalla Corsica, di lì a poco evacuata dai tedeschi, Dante fu trasferito nel Meridione, a Benevento. Lì gli fu proposto di entrare a far parte del Gruppo di Combattimento Cremona, una delle unità dell’esercito italiano che avrebbe continuato a combattere con gli Alleati per la completa liberazione del Paese: “Diversi non ne hanno voluto sapere e sono scappati per raggiungere le loro famiglie. A noi che abbiamo accettato ci hanno dato uniformi inglesi, i mitra Thompson e ci hanno addestrato. Io sono entrato a far parte di un reparto di artiglieria”.
Dante Fontanelli ha vissuto la storia del “Cremona” fin dalle sue origini e con esso andò a combattere in prima linea nella zona di Ravenna. Gli altri volontari altotiberini sarebbero partiti per il fronte dopo la liberazione della valle, all’inizio del 1945. Proprio per questa sua “anzianità” di servizio fu comandato di andare a propagandare l’arruolamento nella nostra valle e nella zona di Perugia: “Qui a Castello gli organizzatori erano Rigo Ferri, Carlo Corsi e gli ex-partigiani, come Aldo Pacciarini, Mimmo Gambuli, Livio Dalla Ragione. Prima di un incontro con i giovani interessati a partire, Ferri mi prese da parte e mi chiese di parlare bene della vita al fronte. Ma io già mi ero reso conto che si trattava di guerra vera, dura, c’erano stati morti tra di noi, e non me la sono sentita di nascondere la verità a chi voleva partire. Ho detto solo che si era ben organizzati e bene armati. C’era un bel clima, giovani motivati. Soprattutto gli ex partigiani avevano idee patriottiche e antifasciste. Si presentò anche qualcuno che aveva fatto parte della ‘Bilinciana’ (la milizia fascista); forse voleva rifarsi una immagine antifascista…”
Poi Dante continuò la sua opera nella zona di Perugia, anche lì con buoni risultati: “Ho conosciuto giovani veramente combattivi. Sono poi rimasto turbato quando tre di quelli che avevo convinto ad arruolarsi sono stati uccisi da una granata in Romagna. Quando mi hanno chiesto se volevo rivedere i loro corpi, non me la sono sentita. E pensare che erano venuti al fronte da pochi giorni”.
La guerra combattuta dai soldati del “Cremona” in Romagna è stata guerra dura: “Il fatto è che combattere i tedeschi metteva paura”, ammette Dante. E una guerra sfibrante: “Sparavamo la notte; i combattimenti avvenivano quasi sempre di notte e di notte si usciva di pattuglia. Insomma, quando veniva il buio cominciava il casino. Bisognava stare attenti. C’erano tra noi dei ragazzi inesperti, di 18 anni, qualche volta s’addormentavano col mitra tra le mani. Pensa, in 32 giorni di prima linea sono riuscito a dormire di fila solo due ore. Di giorno ci si riposava, ma con brevi sonnellini; non era un vero e proprio sonno. In prima linea era così. Si dormiva davvero solo quando ci davano il cambio e ci trasferivano nelle retrovie”.
Poteva capitare di essere paralizzati dalla paura. Dante racconta un episodio emblematico: “Si era appostati in una fattoria. Si sparava utilizzando come feritoie delle finestrine nella scuderia al pianterreno. Una sera con me in quella postazione c’era un ex bersagliere. M’ero raccomandato che stesse attento, perché i tedeschi potevano avvicinarsi strisciando lungo i filari di viti. Gli ho detto: ‘Io guardo a destra, tu guarda alla nostra sinistra’. Dopo un po’ ho scorto un’ombra che si avvicinava, lungo i filari. Ho detto al mio compagno: ‘Attento, che stanno venendo!’; e mi sono messo a sparare contro quel tedesco. Poi mi sono girato verso il compagno per chiedergli cosa aveva visto dalla sua parte. Mi sono accorto che si era rannicchiato sotto un lungo tavolone di legno. Si era cacciato lì sotto, tremava dalla paura e pregava. E pensare che quel ragazzo non era al suo primo combattimento”.
Un altro episodio: “Se catturavano noi soldati, i tedeschi ci portavano prigionieri nei campi di concentramento; se invece catturavano gli ufficiali, li facevano fuori. Una volta hanno preso un nostro ufficiale, gli hanno dato una zappa e gli hanno ordinato di scavare una fossa. Lui era convinto che lo volessero ammazzare e seppellire lì. Poi passarono degli aerei e mitragliarono. I tedeschi si misero in salvo e l’ufficiale riuscì a scappare, tornando tra le linee italiane. Ma per due giorni quell’ufficiale perse la parola, non riusciva più a parlare”.
Nei combattimenti in Romagna, fino alla liberazione di Alfonsine e oltre, Fontanelli non era con gli altri altotiberini del “Cremona”. Apparteneva infatti a un’altra compagnia: “I nostri di Castello, erano a poche centinaia di metri; si combatteva fianco a fianco, ma non ci si poteva frequentare”.
Quanto all’atmosfera che permeava il Gruppo di Combattimento Cremona, così lo ricorda: “Si respirava un’aria antifascista e patriottica, ma senza ideologie di partito. Cantava ‘Bandiera rossa’ anche chi non era comunista; la cantava per spirito antifascista”.
Dante Fontanelli fu congedato pochi giorni prima della Liberazione, per ragioni di famiglia. Aveva due sorelle a carico. Tornò a Città di Castello con un altro compaesano del “Cremona”, Aldo Pacciarini, che era stato ferito.
Appena tornato, nell’entusiasmo della recuperata libertà, si iscrisse al Partito Comunista Italiano. Era uno dei tanti disoccupati in una Italia con poche risorse e da ricostruire completamente: “Dopo la guerra ero senza lavoro e mi sono dato da fare nel movimento dei disoccupati. Si era tanti. Poi sono entrato nel sindacato, nella CGIL. Mi ci ha portato dentro Adolfo Bambini, che era stato partigiano in Emilia, quando divenne segretario della Camera del Lavoro. Mi adocchiò perché facevo un buon lavoro sindacale con i disoccupati”.
Nel 1952 Fontanelli fu inviato alla scuola nazionale per la formazione di dirigenti sindacali fondata da Giuseppe Di Vittorio a Grottaferrata. Un’altra esperienza da raccontare e di cui andare fieri: “Per uno come me che aveva fatto poco più della quinta elementare era duro studiare ad alti livelli. Anche perché con me c’erano compagni con livelli di studio e di cultura molto più alti del mio. Si studiava economia politica, storia, finanza: uno studio pesante. Il direttore pensava che non ce la potevo fare per le basi scolastiche che avevo. Però un po’ di cultura l’avevo fatta dentro il sindacato, e  avevo sempre letto molto. Così mi sono dato da fare, ho studiato anche nel tempo libero, ho pure saltato qualche domenica di riposo. Ho faticato il doppio degli altri, ma alla fine ce l’ho fatta”.
L’anno dopo Fontanelli era segretario della Camera del Lavoro di Città di Castello.

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 16 maggio 2014 e pubblicata ne “L’altrapagina”, giugno 2014.
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