Cangi all’epoca della Resistenza.
Piastrina di riconoscimento durante la prigionia.
Appunti di Cangi sui suoi spostamenti con la "Garibaldi".
In posa con la sua arma,

Cangi Fabio. Partigiano con Tito nei Balcani

“9 settembre 1943: sbandatosi in seguito agli avvenimenti sopravvenuti all’armistizio ed aggregatosi alla Divisione Partigiana Italiana ‘Garibaldi’”. Questa succinta dichiarazione nel foglio matricolare di Fabio Cangi riporta a uno snodo fondamentale della sua vita.
Cangi, classe 1922, contadino di Cirignone, sulle alture a nord di Pieve Santo Stefano, si trovava nell’ex-Jugoslavia, tra Bosnia e Montenegro, con la divisione di fanteria da montagna “Venezia”. Il suo nemico erano i partigiani di Tito. L’armistizio dell’8 settembre pose quelle truppe italiane dinanzi a un difficile dilemma: arrendersi ai tedeschi o invece combatterli, passando dalla parte dei partigiani. Lui fu tra i tanti che mutarono il volto della “Venezia”, trasformandola in Divisione Partigiana “Garibaldi”.
Merita ripercorrere la storia di questi uomini coraggiosi, diversi dei quali, come Cangi, altotiberini. La loro vicenda troppo spesso è passata in subordine rispetto a quella dei partigiani che hanno operato sul territorio italiano.
Cangi ricorda le asprezze della guerra che l’esercito italiano invasore si trovò a combattere nei Balcani: “A periodi era una guerra dura, a seconda di quanti partigiani di Tito s’erano radunati nella zona. Una vita rischiosa, non si sapeva il nemico dov’era. Ce la volevano proprio con noi italiani. Per loro noi eravamo il nemico”.
Ad accrescere l’odio verso gli italiani ci furono le efferatezze commesse dalle camicie nere nella repressione del movimento di liberazione jugoslavo: “I fascisti, le camicie nere, erano peggio dei tedeschi. Di fatti, quando i partigiani slavi li catturavano, li fucilavano subito; qualche volta hanno anche dato i loro corpi in pasto ai maiali”.
La situazione creatasi con l’armistizio fu dunque difficile, pericolosa: da una parte il precedente alleato, i tedeschi, diventato ora nemico duro e implacabile; dall’altra il precedente nemico, i partigiani slavi, con il quale però si poteva contribuire a combattere il nazi-fascismo sul continente europeo. Avvenne allora una cosa straordinaria: una consultazione di massa all’interno della “Venezia” e della “Taurinense”, l’altra divisione italiana sul suolo jugoslavo. Cangi ne ha una vivida memoria: “Non si sapeva cosa fare. Poi i nostri generali fecero un raduno e interpellarono da ufficiale a ufficiale, fino al soldato… Non ci hanno forzato… La maggioranza decise di andare con Tito”. Anche perché i rapporti con i tedeschi erano tesissimi: “Subito dopo l’8 settembre ci siamo scontrati con le truppe tedesche che erano nella zona. Non ci siamo arresi, anzi, gli abbiamo dato le briscole. S’era preparati ad affrontarli e si era su posizioni forti”.
Parecchi militari della “Venezia” non se la sentirono di passare con i “titini”. Ma non ebbero vita facile: “Qualcuno cercò di rimpatriare, andando alla macchia verso il mare. Però lungo l’Adriatico c’erano le forze tedesche e i loro alleati: i nostri fascisti, i cetnici, gli ustascia di Ante Pavelic. Pochi di quelli che presero il via sono tornati a casa”.
Appena a fianco con i partigiani di Tito, si stemperarono anche i rapporti tra slavi e italiani: “Ci hanno accolto non c’è male. La Divisione Venezia non aveva fatto gran che di strage, contro la popolazione, o contro i loro partigiani. E poi, una volta che ci hanno conosciuti, hanno cominciato a fare distinzione tra soldati italiani e camicie nere. Insomma, ci sentivamo rispettati, ci consideravano come loro”.
E Cangi poté subito rendersi conto di quanto fosse forte e motivato il movimento partigiano: “Era una cosa seria. Molto convinti, con diverse donne tra di loro. Militarmente preparati, anche se avevano i fucili di dieci razze, perché l’esercito slavo era peggio di quello italiano…”. Infatti, secondo Cangi, l’Unione Sovietica di Stalin, per quanto vicina ideologicamente a Tito, ben poco faceva in concreto per sostenerne la lotta: “L’Armata Rossa non ci ha dato niente. La Russia non gli mandò mai una cartuccia a questi partigiani. Se non era gli americani e gl’inglesi, loro eran morti di fame. Tito la cercava a questa Russia, ma alla Russia non le fregava niente di Tito”.
Cangi è stato testimone e protagonista di una lotta partigiana fatta di continui spostamenti (“si è combattuto da un posto all’altro, in Kossovo, Macedonia, Serbia”) e di vere e proprie battaglie: “Porca Maremma! Battaglie durissime. A Pristina, nel Kossovo; in Voivodina, in Bosnia, e altre ancora. Battaglie durate giorno e notte. E poi io ero un ‘brigante’, un combattente, non avevo paura”.
In uno di questi scontri, il 18 novembre 1943 a Kremna, Cangi fu seriamente ferito: “Ero il porta-arma del fucile mitragliatore modello 38. Esplose una bomba di mortaio e morirono i miei due porta-munizioni e il mio capo-arma. Io fui ferito in quattro posti: in un braccio, in una mano, anche nell’osso del collo. Non s’aveva una benda, medicine, niente, niente. Mi medicavo con la pipì, con l’erba se la trovavo, se no con una ciocca di faggio…”
Durante l’inverno del 1943-1944, il nemico peggiore divennero le intemperie e la mancanza di cibo: “A un certo punto la mia brigata era disfatta, così sono rimasto un certo periodo con una formazione slava. Perché disfatta? Le malattie, la fame, il freddo… Non s’aveva più manco un telo da coprirsi la notte… con certe bufere… Qualcuno, la mattina, lo si ritrovava rigido come un baccalà. E sì, è stato più duro l’inverno della guerra. L’inverno e la fame… So’ stato anche sei-sette giorni senza mangiare, a mettere in bocca giusto un po’ di neve”.
E di freddo e ferite morì un commilitone di Cangi, anche lui della Valtiberina toscana, Antonio Mastacchi: “Morì là, poraccio. Si era in trasferimento dalla Macedonia alla Bosnia, tra la neve. Antonio fu ferito da una banda di musulmani, che stavano coi tedeschi. Lo lasciammo sotto un abete… Non si riusciva a portarlo con noi. S’era stremati, si barcollava… C’era una buriana di bufera…”
Una morte atroce, in una guerra che gravò in modo drammatico anche sulla popolazione civile: “Dalla stenta son morti anche tanti civili. Perché passavano i partigiani e portavano via ogni cosa nelle zone nemiche; passavano quell’altri e portavano via agli altri. La popolazione ne buscava da quello e da quell’altro”. Infatti non sempre la gente slava, divisa per appartenenze etniche, religiose e politiche, stava dalla parte dei partigiani: “Qualche volta si capitava in dei posti che bisognava stare attenti; una schioppettata eran capaci tutti, a darcela”.
E il nemico? A distanza di anni si intrecciano ricordi assai contrapposti dei tedeschi. Da un lato una loro spietatezza che riemerge nel parlare della morte di un altro altotiberino, Ezio Corazzini: “Apparteneva al 3° battaglione della “Venezia”. Fu catturato e fucilato dai tedeschi a Brodarevo. Ne ammazzarono 600, verso la fine di settembre, mi sembra, e li lasciarono sul terreno. Dopo una mesata noi trovammo lì quei corpi in via di decomposizione; la terra sembrava concimata”. Dall’altro lato la consapevolezza che anche i soldati più duri erano esseri umani: “Anche questi tedeschi li ho visti piangere, quando eran prigionieri. Succedeva quando ricevevano la posta dalla Germania, che gli parlava dei bombardamenti sulle loro città, sulle loro famiglie. Porca Maremma, han bruciato tutto, anche là in Germania”.
Un giorno toccò a Cangi la prova più dura: far parte del plotone di esecuzione di due tedeschi che li avevano attaccati: “Ero anch’io nel plotone, ma non sparai. Mi rifiutai. Eran come fratelli, figli di mamma anche loro. S’era dodici nel plotone, e loro due lì davanti, come due fantocci. E bisognava sparare… Dissi, porco cane, tra tutti quegli scoppi, non sanno chi ha sparato o no… Per fortuna nessuno guardò le munizioni che s’aveva… È stata una delle esperienze più dure, molto più dure del combattimento: ammazzare uno che sta fermo là…”
Il 4 aprile del 1944 Cangi fu catturato dai tedeschi e dagli ustascia : “Cascai prigioniero a Rascia, in Serbia.Avvenne che c’era stato un combattimento e s’era rimasti tutti sparpagliati. Di notte, in una bufera di neve. La sera occuparono questa zona dove s’aveva combattuto e mi ritrovai davanti questa gente. Ci puntarono i fucili e noi, a mani alzate… Porco cane, c’era il rischio che sparassero… non facevano mica i processi… era facile premere i grilletti”.
Da quel momento una lunga e complessa avventura di prigionia e di malattia: una pleurite contratta lavorando da prigioniero in una miniera di piombo a Mitrovica, nel Kossovo, e guarita grazie alle cure di medici tedeschi. Purtroppo ci manca lo spazio per raccontare questa odissea.
Il partigiano garibaldino Cangi fu rimpatriato dalla prigionia tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre 1946: “Tornai ch’ero 47 chili, pesavo una settantina prima… In tutto questo tempo la mia mamma non sapeva dove ero. Per andare a trovare la mia sorella, mi feci prestare le scarpe da uno più povero di me”. Poi Cangi riprese la sua vita di contadino, che gli ha dato pure molte soddisfazioni: “Ma ho lavorato come un lupo”.

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 21 agosto 2013 epubblicata ne “L’altrapagina”, febbraio 2014. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.