Piero Busatti (1890-1995), anghiarese di nascita, si stabilì a Città di Castello nel 1913. Dopo la Grande Guerra, entrò in pianta stabile negli uffici della direzione della Ferrovia Appennino Centrale. Cominciò a fare il giornalista di cronaca locale alla metà degli anni ’20 per “La Tribuna”; attività che avrebbe continuato anche nel secondo dopoguerra, come corrispondente de “Il Tempo”. Busatti è stato una figura di spicco dell’associazionismo culturale tifernate, soprattutto nella Filodrammatica e nella Filarmonica.
Qui sono proposti alcuni suoi ricordi dell’epoca fascista, della quale è stato un attendibile testimone. A quel tempo ricoprì incarichi nel sindacato fascista ferrovieri, nel direttorio del Fascio e nell’Opera Nazionale Dopolavoro.
L’incursione squadrista del 23 marzo 1921
Il 23 marzo Venanzio Gabriotti fu aggredito da dei delinquenti, due fratelli emigrati e da poco rientrati in città. Lo aggredirono con un’accetta perché esponente del partito popolare e cattolico. Proprio quel giorno, Pasqua del 1921, io mi trovavo dentro al Caffè Americano. Entrò trafelato Beppe Gentili, uno dei fondatori del Fascio a Castello, gridando: “Hanno aggredito il Capitano Gabriotti! Chi ha coraggio venga con me!” Ma ormai l’incidente era concluso, gli scalmanati erano scappati e Gabriotti non aveva subito danni. I fascisti però colsero l’occasione di questo incidente per telefonare a Perugia e chiedere l’intervento di una squadra di Perugia.
Mio cognato Antonio Meucci era tra i fascisti che telefonarono a Perugia. Venne giù a casa: “Senti, questa sera è meglio che torniate giù a casa vostra perché può succedere qualcosa….”. Allora presi mia moglie e il bambino e tornai a casa. Proprio quella notte i fascisti di Perugia incendiarono la sede del settimanale socialista “La Rivendicazione”.
Insieme agli squadristi di Perugia, c’erano anche due o tre di Modena. Furono quelli che spararono a quel barbiere, Baldacci, che morì quella notte. E era il marito della “Sciapetta”.
Dopo pochi giorni ci fu un altro ucciso, un nostro macchinista. Si chiamava Silvio Argenti. Lo uccisero questi di Modena, perché gli rispose male.
Chi ha sostenuto il fascismo
All’inizio il fascismo è stato sostenuto dagli agrari. Qui c’era il comunismo che aveva preso piede. I possidenti avevano paura, erano tutti fascisti tesserati. Si schierarono col fascismo anche giovani non agrari, perché erano stati combattenti nella Grande Guerra. Anche la borghesia cittadina ha preso parte; ha aderito. ma senza cariche. Erano tutti fascisti. Gli unici che non erano fascisti erano i contadini. Tra gli operai molti erano fascisti. Ma i contadini, dato che i fascisti proteggevano i possidenti, non aderivano.
Squadrismo e benefici
In seguito tutti volevano essere squadristi. Avevano anche dei benefici: se uno era impiegato, aveva delle promozioni, o gli riconoscevano un quid, quindici/venti lire il mese. Un amico mio di Anghiari, che era comandante della Milizia ad Arezzo, mi disse: “Oh, se vuoi essere squadrista ti faccio essere squadrista!” Gli risposi: “Ma io non lo sono stato…” E lui: “Ma che importa, anch’io non lo sono stato ed invece ora sono squadrista”. Fu una fortuna per me non essermi fatto riconoscere squadrista; così non ho subito conseguenze quando finì il fascismo.
Lotta fra fazioni nel fascismo tifernate
Ad un certo punto ci furono beghe grosse tra i fascisti. Il fascio si divise tra “patriziani” e “palazzeschiani” (cioè tra i sostenitori di Gino Patrizi e di Furio Palazzeschi). Pareva che qualche fascista, o vicino al fascismo, desse i soldi a strozzo. Così il Fascio si divise tra chi accusava alcuni di strozzinaggio e chi invece li difendeva.
Fu in quel periodo che il segretario politico del Fascio fu ucciso da un altro fascista. Il segretario era Ezio Torrioli, uno dei primi squadristi, abbastanza violento. Un giorno lui e Astorre Borborini andarono in spedizione punitiva a Lerchi e dettero un sacco di cazzotti a un ex carabiniere antifascista, che morì. I due subirono il processo, stettero un anno dentro. Quando uscì di carcere Torrioli era un eroe. Per farlo calmare, lo impiegarono nella ferrovia e lo misero proprio nel mio ufficio. Poi prese moglie, e non ne volle più sapere niente del partito. Il capo-zona allora era Palazzeschi. Torrioli mi disse: “Digli a Palazzeschi che non ne voglio più sapere niente del partito”. Ma allora non si poteva, non esistevano le dimissioni: o si era buttati fuori o si doveva lavorare. Torrioli non andava nemmeno su in sede a firmare. Si era fissato con la moglie e non ne voleva più sapere. Non parlava più di fascismo. Una sera uscito di ufficio, va a cercare al caffè un amico per restituire un cacciavite. Là invece trova Beppe Gentili e un certo Minciotti, tutte e due squadristi violenti. Disse Torrioli: “Ve voglio paghè el caffè, c’ho cinque lire qui che nn el sa manco la mi moglie”. Mentre bevono il caffè cominciano a parlare di politica: era il periodo di questo dualismo interno al PNF. Minciotti cominciò a dirgli: “Tu sei un vigliacco… come segretario politico dovresti qui, dovresti là…” Ad un certo punto Torrioli mise le mani in tasca. I due sapevano che lui teneva sempre una pistola per tasca. Allora Minciotti tirò fuori la sua e gli sparò. Morì sul colpo.
Dopo questo omicidio lo scontro tra i fascisti si acuì e il Fascio fu sciolto. Il prefetto dette a Luigi Mignini l’incarico di ricostruire il Fascio di Castello. Poi Mignini divenne anche podestà.
Ricordi di alcuni dei fascisti più in vista di quel momento
Gentili Giuseppe e i fratelli. Chi creò il fascismo a Castello fu questo Beppe Gentili. Un idealista, altruista. Lui era proprio fascista. Era decorato al valore nella guerra 1915-1918. Andò pure volontario con D’Annunzio. Combatté anche in Africa. In fondo era una buona persona; un po’ violento, ma idealista.
I suoi fratelli erano fascisti per modo di dire. L’aveva fatti riconoscere squadristi, ma Giulio era cassiere alla Cassa di Risparmio; non ha mai avuto cariche fasciste. L’altro fratello Virgilio era un tipo moderato… I Gentili erano commercianti, con due o tre poderi che curava Giulio.
Patrizi Gino Figlio del deputato Ugo, era laureato in agraria, ma non faceva gran ché. Voleva fare il
capopopolo, ma anche molti dei suoi colleghi lo pigliavano in giro.
Palazzeschi Furio È stato sindaco, presidente della Cassa di Risparmio, segretario del Fascio e capo-zona fascista. Era laureato in agraria. Una famiglia antica, di agricoltori veri. Un vero capo, ma alcuni non gli volevano bene. Non lo potevano accusare di nulla perché era un galantuomo al cento per cento. Lui col fascismo trascurò i suoi interessi e alla fine si ritrovò male anche economicamente. Come presidente della Cassa di Risparmio fece credito a delle persone che dopo non potettero pagare. Lui, come altri possidenti, ha finito il capitale col fascismo.
Falchi Angelo. Era una figura un pochino equivoca. Un grande uomo d’ingegno, un bravo pittore. Aveva una facilità di parola straordinaria. Non aveva fatto studi, niente. Sposò una maestra intelligentissima, una brava attrice della Filodrammatica, Giuseppina Spaccialbello. Lui emerse al sorgere del fascismo e capì che questo movimento poteva fare per lui. Lo chiamarono a dirigere “L’Assalto” di Perugia, era un pubblicista. Finì a Bologna che dirigeva il giornale dei Fasci. Fu il fondatore di “Polliceverso” – il settimanale del Fascio di Castello – insieme ai Gentili ed Angelo Antoniucci. Ci scrivevano un po’ tutti, anch’io vi scrissi qualche articolo di cronaca. Falchi non legò molto con Castello perché faceva il popolare, cioè faceva finta di venire del popolo, ma lui però non ha mai lavorato.
Antoniucci Angelo.Era universitario allora. Subì leggere ferite nella notte di Pasqua, insieme a mio cognato Antonio Meucci. Scriveva su “Polliceverso”firmandosi “Antonangelo”. Si laureò ed entrò nei sindacati a Roma.
Meucci Antonio. Mio cognato era giovane, del 1900; un piccolo possidente terriero. Partecipò alle prime spedizioni punitive. In quella di Sansepolcro fu ucciso un uomoe i suoi camerati incolparono lui. Fu assolto per legittima difesa dato che quel tale gli aveva puntato un coltello e non lo colpì perché lui fece un passo indietro.
Tommasini Mattiucci Eugenio. Era un nobile, un proprietario terriero. Prese parte alle prime azioni squadriste, insieme ai suoi tre fratelli Alessandro, Antonio e Arduino. Era studente universitario a Roma e viveva tra Castello e Roma. Dopo divenne segretario del Fascio, sindaco, presidente dell’Associazione Combattenti… Tutte le cariche… Ma non aveva tanto ascendente.
Trivelli Francesco. Proprietario terriero tra i fondatori del Fascio a Castello. Era stato ufficiale in guerra. Gli ero molto amico. Francesco era uomo ambizioso, voleva emergere, essere eletto nel direttorio. Per farlo star zitto bisognava dargli una carica. Lo nominarono capo-centuria, cioè capitano della Milizia. Dopo lo fecero comandante della milizia contraerea, la DICAT. Non era un duro, gli volevano bene anche i non fascisti. Era un possidente, ma anche lui ha finito ogni cosa. Aveva quattro figliole che hanno sposato tutte bene, così lui ha potuto vivacchiare bene.
Niccolini Filippo. Lui sì che era un fascista fanatico. Uno squadrista della prima ora. Durante la guerra, siccome io avevo delle idee più moderate, mi incontrava fuori mi provocava. Io facevo finta di non vedere.
Tellarini Mario.Ragioniere capo del Comune, fu a lungo segretario del Fascio. Lui era benvoluto da tutti. Era squadrista, ma non aveva fatto nessuna azione. Era un fascista moderato.Dopo il 1935 si fece da parte, ma non per questioni politiche. Si dimise perché era segretario in Comune e cedette l’incarico a Michelangelo Riccardini, ex ufficiale pilota e decorato al valore. Ma Riccardini non fece niente.
Catrani Eugenio. Fu per breve tempo segretario del Fascio. Era avvocato, di famiglia nobile. Lui era fanatico: quando ci furono gli attentati a Mussolini, lui era segretario politico e pretendeva che i fascisti andassero a fare le perquisizioni nelle case degli oppositori.
Serafini Ivo. Il suo modo di fare non era da camerati. Era stato capitano dei bersaglieri, credeva di trattarci tutti da soldati. Chiamava in sede noi capi-settore: “Io vi impongo”. E noi: “Tu non ci deve imporre niente…”. “Io sono il segretario politico, vi faccio mettere in galera tutti”. Allora io mi dimisi, non ne volli più sapere: “Io devo fare il capo-settore con te che fai il prepotente?”. Dopo si dimise anche lui.
Incarichi di segretario amministrativo del Fascio e di capo-settore
Il direttorio del Fascio non contava niente. Comandava solo il segretario. Facevo parte del direttorio come segretario amministrativo, ma non ci andavo mai alle adunanze. Io sono stato segretario amministrativo per un pezzo, perché ci voleva uno che sapesse di contabilità. In realtà ero facente funzioni, perché il vero segretario amministrativo, un certo Panizzi, era ammalato. Ma allora c’era una signorina che teneva la contabilità; perciò io non facevo niente, lei teneva la contabilità ed io firmavo.
Ero anche comandante del Settore San Giacomo. Si lavorava per le adunate e basta.Si doveva vedere chi mancava, chi non mancava. Ma io non me ne occupavo per niente. Avevo alle mie dipendenze un caponucleo, ma nemmeno mi ricordo chi era. Il capo-nucleo era una specie di caporale che controllava una parte di quartiere.
Il Dopolavoro
Il Fascismo sosteneva le iniziative culturali. In seno al direttorio c’era l’addetto culturale, in generale un professore che insegnava qui. Il Dopolavoro, in via Marconi [ex palazzo del Monte di Pietà] era frequentatissimo. Era in antitesi al Circolo Tifernate: era popolare, aperto tutte le sere. C’era il riscaldamento con le stufe, a quei tempi là era confortevole. Quando divenni presidente del Dopolavoro, istituii una piccola biblioteca, donando i libri non di carattere medico di mio padre, quando morì.
Io avevo scelto, come ispettori del Dopolavoro, tutta gente che non aveva la tessera fascista. Come persone attive c’erano i tipografi (ne avevo tre come aiuto-bibliotecario). All’amministrazione come segretario avevo il maestro Spadoni; come aiuto segretario il tipografo Vincenzo Braganti e un certo Ricci, che poi è stato consigliere socialista. Quando era proibito sentire Radio Londra, lì invece qualche sera la sentivano. Ma io fino a tardi non stavo in sede, perché facevo l’impiegato e me ne andavo a letto presto. Tra gli ispettori che avevo nominato c’era un tale che dopo diventò antifascista e amministratore in Comune: “Signor Busatti, guardi che ‘sta notte hanno sentito la radio inglese”, e mi dette i nomi di quelli che l’avevano sentita. Io gli dissi di lasciar perdere e lui mi rimproverò; voleva che prendessi dei provvedimenti, mi diceva: “la sentono spesso Radio Londra”. E insisteva: “Lei può passare dei guai come presidente…”. Gli risposi: “Lascia fare, se devo passare dei guai, li passerò io, non tu”. Fortuna che non gli diedi retta, perché dopo mi sarei trovato male…
Iscrizione al Fascio Repubblicano
Quando venne il Fascio Repubblicano, io ero il presidente del Dopolavoro e volevano che continuassi ad esserlo. Ma io andai sfollato nei poderi di mia moglie. Non ne volli più sapere di niente. A me mi iscrisse al PFR l’amico Fausto Desideri, che fece la domanda per me! Perciò io figuravo “reiscritto”; invece io la domanda non l’avevo fatta. Desideri si giustificò: “Ma come, io ero sicuro che tu rifacessi domanda…”
Testimonianze raccolte il 10 maggio 1986, il 6 maggio 1989, il 3 maggio 1990 e nel 1994, Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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