Il racconto di Mentana rivela importanti particolari delle travagliate vicende in epoca fascista del padre Aspromonte Bucchi (1890-1939), dirigente socialista tifernate perseguitato dal regime.
Sono la primogenita di Aspromonte, sono nata nel 1912. Ho un fratello, Spartaco, e una sorella, Alba. Mia madre si chiamava Francesca Gaggioli.
Incursione degli squadristi fascisti il giorno di Pasqua 1921
Pasqua del 1921. Avevo 9 anni. Stavamo in via S. Florido, la casa prima di Galluzzi, sulla destra andando giù, al primo piano. La sede socialista era lì vicino, nel palazzo che fa angolo tra via dei Casceri e via S. Florido; il primo portone sulla sinistra, al primo piano.
Avevamo preparato un agnello per festeggiare la Pasqua. Eravamo cinque in casa, con nostra nonna. Il pomeriggio mio padre uscì. Noi ci recammo alla Mattonata da Ferdinando Baldacci, un sarto, nostro parente. Lui ci chiese di restare e venne poi a cena anche mio padre. Fu allora che ci dissero dell’arrivo dei fascisti. Cercavano mio padre. Lo venne a prendere qualcuno e lo portò a casa di Luigi Gabriotti. Si nascose lì per un po’. Noi restammo dai Baldacci. Ci dissero che erano entrati in casa nostra. Poi la vidi. Porte sfondate, forse da moschetti. Rotte le vetrate, casa buttata tutta all’aria. Mangiarono l’agnello, era bell’e pronto, e portarono via quello che trovarono, anche soldi. Aspromonte rendeva la paga settimanale a sua moglie, che lavorava con lui alla tipografia Arti Grafiche: lui correttore di bozze, lei mettifoglio.
Aspromonte Bucchi si nasconde
In seguito lo ha nascosto Agnellotti, il falegname di via della Fraternita. Anche mia madre rimase per un po’ nascosta con lui. Fu allora che concepirono Alba. Noi stavamo con una zia; Aspromonte aveva tre sorelle. Mia madre ci lasciava da lei e stava un po’ con mio padre. Dopo andò in campagna da un contadino. Cambiò diverse case. Talvolta lo scortavano di notte con delle doppiette. Mia madre non sapeva più dove era, non sapeva se era vivo o morto. Poi le si avvicinò uno in bici mentre andava a lavorare, si presentò, le disse “suo marito è in casa mia, io seguito, farò finta che mi cade un fazzoletto, lascerò sulla strada un foglietto con l’indirizzo del podere dove è nascosto Aspromonte”.
Esilio a Roma
Poi se ne andò a Roma, da Arezzo, in treno. Prima trovò lavoro alla Federazione del Libro. Poi gli intimarono di lasciarlo. Siccome teneva una certa contabilità, insistette che gli rilasciassero una dichiarazione che era rimosso dal lavoro per ragioni politiche, e non per cattiva amministrazione o frode: non voleva che lo sospettassero di essere un furfante.
Quindi tornò a fare il tipografo. Quando noi lo raggiungemmo a Roma, già faceva il tipografo. Anche mia madre riprese il lavoro di tipografa, ma in un’altra azienda. La nostra famiglia, riunita, viveva in spazi ristrettissimi: una sola camera da letto per cinque, con un tavolo addossato al muro per mangiare; fuori uno sgabuzzino che condividevamo con un’altra famiglia per cucinare.
Persecuzione fascista
Avevamo spesso i fascisti in casa. Venivano per perquisizioni. Poi lo portavano in caserma. Ma lo rispettavano. Il maresciallo non volle mai che lo chiudessero in galera, lo faceva addirittura mangiare con lui. Ogni volta che succedeva qualcosa, si sentiva suonare il campanello: erano i fascisti armati, o i carabinieri. Mio padre non subì mai percosse, ma dovette cambiare diverse volte le tipografie dove lavorava. Giungevano ad esse intimazioni di licenziarlo, pena rappresaglie. E lui a supplicare: ma come faccio, ho tre figli, non ci basterà lo stipendio di mia moglie.
Dalla Francia gli giunse l’invito di Luigi Crocioni e di Vituperio […] di trasferirsi a Nizza: lo avrebbero impiegato come contabile nella loro azienda. Crocioni gli inviò addirittura il passaporto. Ma lui, nonostante la disponibilità di mia madre ad espatriare, sperava ancora di tornare a Castello.
Uno degli inquilini dello stesso palazzo era Angiolino Tramontana, di Cortona, grande amico di mio padre. Era comunista e stravedeva per Aspromonte, tanto che volle sempre dargli del lei, per rispetto. Politicamente era un duro. Ne buscò, ma le ridette anche tante. Mise anche delle bombe. Da contadino divenne piccolo impresario edile. Stette anche diversi mesi in prigione, accusato della morte di un fascista.
Mio padre teneva in casa un piccolo busto in bronzo di Matteotti. Quando vennero i fascisti per una perquisizione, mia madre me lo dette perché lo nascondessi fra le ascelle, sotto lo zinale, e scendessi verso il giardino; lì una nostra vicina lo nascose dentro un vaso di coccio e lo ricoprì di terra.
Ritorno a Città di Castello
Quando gli morì la madre, chiese di poter tornare in città per i funerale. Gli risposero: “Se invece di un morto ne volete due, fate pure…”
Era azionista dell’Arti Grafiche e quindi aveva diritto a riprendere il posto di lavoro in azienda. Tornai in città prima io. Andai a parlare col segretario del Fascio insieme a una zia. Dissi che mio padre stava male di salute, si crucciava per la situazione sua e della famiglia. Il segretario disse che avrebbe fatto un’adunanza perché i fascisti non lo molestassero. Tornò nel 1931. Al suo funerale ci furono più fascisti che compagni del suo partito.
Morte di Aspromonte
Aspromonte era malato di spalle. Lo distrussero lentamente le preoccupazioni per la situazione della famiglia. Non mangia un giorno, non mangia un altro… Sempre a crucciarsi. S’era lasciato andare.
Fu anche ricoverato al Pallotta. Lì accadde che, pressato a lungo dalle suore dell’istituto, che sapevano delle sue idee, accettò di fare la comunione. Ma quando tornò in città e lo riportarono a casa, ormai vicino alla morte, ci chiamò a raccolta e ci raccontò del fatto, dandoci le sue ultime volontà: non voleva funerali religiosi, non voleva vedere il prete in punto i morte. Dopo la sua morte, don Giuseppe Malvestiti pubblicò un articolo che raccontava del fatto successo al Pallotta e accusava noi famigliari di aver impedito gli ultimi conforti religiosi ad Aspromonte. Ci andammo subito a parlare, io e mia madre, e lo costringemmo ad una smentita.
Anticlericalismo di Aspromonte
Ricordo che da piccola mio padre portava tutta la famiglia ai cortei, e a S. Paterniano, chi con la camicetta rossa, chi con la bandierina; bastava avere qualcosa di rosso addosso. In casa era molto dolce.
Non voleva che si facesse la comunione e la cresima. Mia madre allora ci fece fare la dottrina di nascosto dalle salesiane poi andò a parlare con Liviero: “Senta monsignore, sono la moglie di Bucchi, sono cattolica, ma rispetto le idee di mio marito. Sono disposta a cresimare i miei figli, purché lei non lo sbandiera in pubblico dal pulpito. Non voglio umiliare mio marito.” Lui accettò di buon grado, si congratulò. Aspromonte, quel giorno, mi chiese più volte: “Come mai quel vestitino bianco e nuovo?”
Aspromonte pensava che le donne dovessero stare in casa. Dovette far lavorare la moglie solo per bisogno.
P.S. Mentana Bucchi Cesarotti è deceduta nel 2012 all’età di 100 anni.
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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