Bruschi Domenico. La banda di Capanne e la battaglia di Montone

“Noi ragazzi non si capiva niente di politica e di cose militari”. Lo sottolinea Domenico Bruschi, nel ricordare la sua vita alla macchia tra la fine del 1943 e la primavera del 1944. Allora aveva 19 anni e faceva il contadino a Gaianello, nella valle del Carpina, presso Montone. Come tutti i suoi coetanei ricevette le cartoline-precetto della Repubblica Sociale Italiana e come tanti di loro non se la sentì di andare a combattere o a lavorare per fascisti e tedeschi.
Domenico fece vedere la cartolina-precetto a Bonuccio Bonucci, il proprietario della tenuta di San Faustino, dove aveva avuto origine l’omonima brigata partigiana che operò nel Pietralunghese. E Bonucci li aiutò ad andare alla macchia e ad organizzarsi. Così i renitenti di Montone si nascosero a Capanne, su un’altura a nord del torrente Carpina: “Il nostro rifugio era lì perché c’era la scuola e ci insegnava Ruggero Puletti. Aveva solo due anni più di me, ma diventò il nostro capo, quello che teneva i contatti con gli altri capi partigiani. Bonucci ci teneva informati su quanto avveniva; per noi era come un babbo”.
Bruschi ammette che la scelta di non rispondere alla chiamata dei bandi fu sofferta: “La repressione fascista contro i renitenti fece effetto. Infatti bruciarono la casa ad Aurelio Bacchetti, perché non si era presentato; fecero uscire di casa la famiglia e dettero fuoco a materassi e mobili. Due settimane prima era successa la stessa cosa alla casa di Liseo Martinelli”.
Siccome sapeva che anche la sua casa avrebbe fatto quella fine, Domenico finì con il presentarsi: “Ma sono rimasto sotto le armi solo 16 giorni. Una sera ci hanno portato verso Todi e Colvalenza. Ci spostavano in camion di notte, per evitare attacchi aerei. Eppure dei ‘picchiatelli’, dei caccia inglesi, hanno individuato la colonna e hanno lanciato dei bengala. C’è stato un fuggi fuggi e tutti i soldati si sono sparpagliati nei campi. Io ne ho approfittato per scappare insieme a un commilitone e sono tornato a piedi fino a casa”.
Da allora Bruschi rimase nella banda di Capanne, la formazione partigiana dei montonesi che faceva parte della Brigata “San Faustino”. Ricorda che erano in 18 lassù alla macchia. Cerchiamo di ricostruire la composizione di quel gruppo e alla fine vengono fuori quasi tutti i nomi, in genere legati indissolubilmente al luogo d’origine o al podere della famiglia: Gino Ceccagnoli di Turabuco, Liseo Martinelli di Coloti, Luigi Bruschi di Spirineo, Mimo Meniconi di San Venano di Sotto, Alberto Capanna e Aurelio Bacchetti di Corlo, Rino Cacciamani di Cai Coppi, Ruggero Bruschi di Fontinella, Rinaldo Procacci di Valcaprara, Pietro Colcelli di Gaiano, i fratelli Gianni e Giuseppe Feligioni di Col di Corona, Ivo del Pantano e infine Ruggero Puletti. Poi c’erano Nazzareno e Domenico Bagiacchi di Molino del Colle, che fungevano soprattutto da informatori e tenevano i collegamenti con Montone e Pietralunga. Nella quasi totalità si trattava di contadini mezzadri; i più avevano da 19 a 24 anni.
I ricordi più intensi e drammatici di Bruschi sono legati alla battaglia di Montone del 6 maggio 1944, l’unico vero scontro a fuoco al quale ha partecipato. L’obbiettivo era semplicemente di disarmare il presidio fascista del paese. Per tale incursione, si erano riunite tre bande della “San Faustino”, quelle dei pietralunghesi, dei montonesi e dei tifernati: “Eravamo in 35-40. Avevamo doppiette da caccia, moschetti 38 e 91, roba superata. Una mitragliatrice, che era pesante, la portarono giù con una cavalla. Quella mitragliatrice era una bestia, la sapeva maneggiare Ivo del Pantano; la tenevamo a Capanne, presso la scuola. Con noi, oltre ai comandanti Stelio Pierangeli e Mario Bonfigli, c’era anche Aldo Bologni”.
Mentre i partigiani salivano da Tre Ponti a Montone, scorsero i fanali di un camion che scendeva dal paese: “Saranno state le 11 di sera. Ci nascondiamo tutti ai lati della strada. Vediamo che passa e va verso le Carpini. Bonfigli ci dice che è tedesco e decide di far rimanere sul posto tre di noi, armati di bombe a mano. Così, se il camion tornava verso Montone, lo dovevano fermare e impossessarsene”.
Intanto il resto del gruppo è arrivato a Montone, ha occupato il paese e ha disarmato, senza spargimento di sangue, il presidio fascista. Compiuta l’azione, ha cominciato a prendere la via del ritorno. In quel momento i tre partigiani rimasti sulla strada hanno visto il camion che tornava a Montone. Era carico di tedeschi: accortisi di aver sbagliato direzione, tornavano sui loro passi: “Appena arrivato sul punto dove erano in agguato i nostri compagni, Tullio ha lanciato una bomba a mano davanti al camion, per farlo fermare. Pensava che ci fossero dentro solo i due autisti. Invece sono scesi tutti i tedeschi e si sono messi a sparare raffiche di mitraglia. A quel punto i nostri tre compagni sono scappati e il camion tedesco ha potuto riprendere la strada verso Montone”.
In precedenza era stato convenuto che se i tre fossero riusciti a prendere il camion, appena giunti in vista di Montone avrebbero dovuto farsi riconoscere sventolando il fazzoletto rosso partigiano che avevano indosso. Per lo meno ciò aveva capito Mario Bonfigli: “Infatti ci ha fatto nascondere sul greppo ai bordi della strada e ci ha detto: ‘Se non vediamo sventolare il fazzoletto rosso, si spara’”. Purtroppo, secondo Bruschi, un fraintendimento provocò la morte di Aldo Bologni: “Era ancora buio, ma cominciava ad albeggiare. Mentre si era appostati, Aldo Bologni e Stelio Pierangeli sono scesi più giù per la strada. Evidentemente non si erano messi d’accordo bene con Bonfigli. Quando il camion è arrivato vicino a Bologni, all’altezza dell’attuale monumento, è stato lui ad agitare il fazzoletto invece di attendere il segnale convenuto. Nel vedere sventolare quel fazzoletto, i tedeschi gli hanno sparato dal camion e l’hanno colpito a morte. Pierangeli s’è salvato perché era più dietro: con due salti è riuscito a fuggire dietro lo spigolo della chiesa e a nascondersi”.
Poi il racconto del violento combattimento: “Noi si era 30-40 metri indietro. Ci siamo messi a sparare tutti contro il camion, dieci minuti di sparatoria. Per i tedeschi che erano sopra, coperti da un telone, è stata dura. Allora si parlò di 6 morti. Ricordo di averne visto uno giovane, caduto sulla ruota anteriore del camion, con il corpo tutto crivellato di colpi. Poi siamo scappati, passando per la Macchia del Negrone. C’erano cespugli pieni di spini, ma gli spini non li abbiamo sentiti… Una grande paura”.
Nelle parole di Bruschi c’è poco spazio per la retorica: “Noi freghi s’aveva paura di sparare, non si capiva niente, s’era contadini… La battaglia di Montone, l’unica nella quale noi giovani abbiamo sparato, per noi è stata uno shock. Mi ha fatto impressione vedere quel tedesco con il corpo crivellato da almeno 40 proiettili. Avrà avuto la nostra età”.
Quel combattimento mise tutti in apprensione: “Era un guaio ammazzare i tedeschi. Le nostre famiglie si raccomandavano di non sparargli, avevano paura delle rappresaglie. Il mio babbo me lo diceva sempre: ‘N gni sparète, m’arcomando!’ Ma anche i nostri comandanti erano stati chiari. L’ho sentito io stesso Mario Bonfigli affermare che non bisognava ammazzare i tedeschi”.
Dopo la battaglia, infatti, si scatenò un terribile rastrellamento tedesco in tutta l’area tra Città di Castello, Pietralunga e Montone. Ci furono diversi morti tra la popolazione civile, quattro tra le valli del Carpina e del Carpinella. Le bande della “San Faustino” riuscirono a sfuggire alla trappola mortale, ma si verificò uno sbandamento generale: “All’inizio del rastrellamento, a noi di Capanne hanno dato l’ordine di prendere le armi e di nasconderci nel macchione di Cai Pizzichelli. Io sono rimasto nascosto in mezzo al bosco col mio fucile. I tedeschi nei macchioni non ci venivano”.
In pratica, l’attività operativa della banda di Capanne finì lì. Anche perché il lungo e spietato rastrellamento diffuse il terrore tra le famiglie dei contadini: “Nel nostro gruppo ciascuno pensò a salvare se stesso, nascondendosi vicino alla propria famiglia. Meno ci si vedeva e meglio era. Per mangiare, io qualche volta tornavo a casa; altre volte me lo portava la mia mamma. Mi nascondevo ora in un fosso, ora nel bosco. La nostra banda si è riaccorpata solo alla fine. Ma si era la metà di meno”.
Dopo la Liberazione, Bruschi e i compagni già alla macchia con lui furono chiamati a partecipare a una festa popolare a Umbertide, sotto la Rocca. Si festeggiava la riconquistata libertà. Tra un ballo e l’altro, un propagandista incitava i giovani a riprendere le armi per arruolarsi del Gruppo di Combattimento “Cremona” e combattere fino alla completa liberazione dell’Italia: “Io e altri miei amici si diceva: ‘Ma perché partire, tanto ormai la nostra zona è stata liberata’. E poi si era contadini, si doveva coltivare i campi. Invece uno che conoscevo si è convinto proprio quella sera a partire”.
Era lo studente universitario umbertidese Rino Pucci. Sarebbe morto in combattimento a 23 anni il 3 marzo 1945 in Romagna.

P.s. Bruschi è deceduto nel maggio 2018.

 

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 10 maggio 2013 e pubblicata ne “L’altrapagina”, marzo 2004. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.