Mario Bistoni con la sua moto.
Particolare di Bistoni nella foto di un gruppo musicale tifernate.

Bistoni Mario. Associazioni culturali e Dopolavoro durante il fascismo

Mario Bistoni (1911-2008) era figlio di Domenico e nipote di Napoleone, muratori di fiducia del barone Leopoldo Franchetti. Affiancò il padre nella piccola azienda edile all’inizio degli anni Trenta. Nel contempo si immerse nell’ambiente culturale locale. Cantò con la corale di don Zefferino Godioli e poi con la Schola Cantorum; recitò con la Filodrammatica Tifernate e suonò nella Banda Municipale e nell’orchestra Arcaleni.

Il suo racconto ci riporta in un mondo d’altri tempi:
“Pensi alla mia passione per il canto… Cantavo con mio zio don Zefferino, Beppe Beni e i due Marinelli nelle chiese di Castello. Si cominciava la mattina con la messa delle nove a Santa Maria Nuova; poi mio zio ci portava alle altre messe. Ho girato tutte le parrocchie della diocesi. Quando si andava a Morra, mio zio partiva alle 9 con Beni e con me in bicicletta, mentre i Marinelli andavano fino a Trestina in treno; poi io e lui li portavamo sulla canna della bicicletta fino a Morra. Quando si andò a Botina, si andava in bici fino ai Renzetti, poi ci venivano a prendere in mulo per portarci lassù”.
Una faticaccia, ma con soddisfazioni non solo artistiche o religiose:
“Che mangiate che abbiamo fatto con i preti di campagna!”.
In seguito, Mario Bistoni si ritrovò al fianco di Roberto Arcaleni. Il popolare “Maestrino” dirigeva la Schola Cantorum e ogni altro coro cittadino, aveva una sua orchestra di una trentina di elementi, assai eclettica quanto a gusti musicali, ed era a capo di tutte le orchestrine d’occasione che sorgevano in qualsiasi altra circostanza.
“Che caratteraccio aveva Arcaleni! Ci dava certe strapazzate se qualcosa non andava, se si sbagliava alle prove! Ma poi chiedeva scusa a noi amici. Era un geniaccio, comunque: se bisognava un brano, era in grado di comporlo lì per lì. E poi, per dirigere i cori, Arcaleni era bravissimo, con lui si stava sicuri”.
Tutto ruotava intorno al “Maestrino”, dunque:
“Sì. Quando venivano le opere a Castello e lui era incaricato di formare il coro locale, chiamava tutti quelli che conosceva. Soprattutto gente del popolo, artigiani e operai. Sia donne che uomini. Per coloro di cui non conosceva la voce faceva le eliminatorie. Li provava uno dopo l’altro; suonava al piano un’aria, li faceva cantare e poi: ‘tu sì’, ‘tu no’. Famoso il suo detto: ‘Isabella, fagni lume!’: lo rivolgeva a chi veniva scartato; significava che Isabella doveva fargli luce mentre se ne andava”.
Che ne pensava Arcaleni del fascismo?
“Prima era contrario. Poi si dovette adattare al regime, lui come tutti. Si prestava a suonare per l’Opera Balilla, a dirigere i cori delle associazioni fasciste. Del resto doveva pur pensare alla sua professione di musicista”.
Che clima c’era dentro a queste associazioni culturali? I dirigenti fascisti le tenevano sotto stretto controllo?
“Beh, con la banda bisognava suonare sempre ‘Giovinezza’, l’inno dei fascisti, durante le manifestazioni. In quelle occasioni, manifestazioni politiche o patriottiche, la banda si radunava sotto le logge e doveva indossare, oltre al cappello dell’uniforme, anche la camicia nera”.
Ma so che vi erano degli antifascisti nella banda municipale…
“Altroché. Nel campo musicale erano parecchi. Si può dire con sicurezza che tra i filodrammatici e i musicisti la maggioranza non erano fascisti. Soprattutto quelli che avevano dai 35 anni in su”.
Anche l’ambiente teatrale, con la Filodrammatica Tifernate, rimase sostanzialmente tranquillo.
“L’ambiente era tollerante. Ci stavano dei fascisti, ma anche altri che fascisti non erano. Loro con intelligenza facevano silenziosamente la loro parte, senza esprimere critiche politiche. In pratica potevano svolgere attività culturale, basta che non si interessavano di politica”.
Uno degli esponenti più in vista della Filodrammatica era il socialista GioBatta Venturelli, poi sindaco della città nel secondo dopoguerra.
“Lui non rinnegò mai il socialismo. Sapevamo che aveva idee socialiste, ma lui non faceva niente per metterle in evidenza. Se si parlava di politica, lo si faceva cordialmente. E lui, come gli altri non fascisti, era molto prudente”.
È vero che una certa “promiscuità” di idee caratterizzava anche la Schola Cantorum?
“Sicuro. Benché si cantasse in Duomo, c’erano nel coro diversi elementi anticlericali e socialisti. Il più ‘pulito’, dal un punto di vista delle idee, ero io…”
Il regime accorpò tutte le iniziative culturali e ricreative nell’Opera Nazionale Dopolavoro. Quella tifernate si distinse in Umbria per dinamismo e varietà di attività. Dove vi ritrovavate?
“La sede del Dopolavoro era accanto a casa mia, in via San Florido, nel palazzo che prima ospitava il Monte di Pietà. Teneva aperto il pomeriggio e dopo cena. Ci andavo a giocare a ramino. Lo frequentavano diversi lavoratori, tipografi, dipendenti dei Tabacchi, insegnanti. In città, da una parte c’era il Circolo Tifernate, che manteneva sempre una certa distinzione, dall’altra il Dopolavoro. Ogni tanto organizzavano qualche conferenza. Dopo qualche anno ebbe anche un apparecchio radio”.
In una precedente conversazione (1990), Bistoni mi aveva detto riguardo al Dopolavoro:
“Mancava un grande controllo politico, non si trattava di un’organizzazione politicizzata, né vi era animosità politica. Io feci teatro e ginnastica. La nostra squadra, oltre alle figurazioni ginniche, durante i concorsi doveva competere nel nuoto, nel tiro, nel canto corale e nelle gare atletiche. Il primo anno non sapevo nuotare così detti 10 lire ad un altro perché mi sostituisse senza farsi accorgere. Ci allenava Alberto Ottaviani, faceva anche il macchinista nella Filodrammatica e diceva parecchie bugie, così lo chiamavamo “el zi bomba”. Tra i personaggi del Dopolavoro. Silvio Mariani era chiamato “zucchero” perché lo trovavamo dappertutto. Di Braganti si sapeva che era sempre stato socialista, ma alla fine dovette metterla anche lui la camicia nera”.
Il presidente del Dopolavoro fu a lungo Mario Tellarini, il ragioniere comunale che resse per diversi anni il Fascio cittadino. Che tipo era?
“Un ‘signore’; posso garantire personalmente che era una persona onesta. E poi un tipo tranquillo, pacifico. Non ha disturbato nessuno; non apparteneva al gruppo dei fascisti fanatici, degli squadristi. Ci trovammo bene con lui come presidente. Fu Tellarini a spingere me, GioBatta Venturelli, Alcide Sbrocchi, Dante Brighigna, Amilcare Consani, Beppe Beni e altri a costituire una società per gestire il Cinema Vittoria. Voleva contrastare il Cinema Eden, che era gestita da Gaetano Pirazzoli, dietro al quale si muovevano nell’ombra dei massoni. Lì imperava la massoneria. Ci fu una lotta… Nonostante che si avesse quegli appoggi politici, venivano i carabinieri e ci facevano chiudere. Ci fecero questi brutti scherzi.
Ma come, avevate il sostegno del Fascio e quelli dell’Eden ce la potevano più di voi?
E si capisce; a dimostrazione che la massoneria comandava. Alla fine l’abbiamo spuntata, ma è stata una cosa antipatica… Il Vittoria era anche la sede della Filodrammatica Tifernate; recitava lì. Poi vi si facevano manifestazioni politiche e conferenze. Il partito fascista veniva lì.
Mario Bistoni si tesserò al Fascio a 22 anni, nel 1933, quando il partito fascista riaprì le iscrizioni. Ve ne furono talmente tante – e opportunistiche – che quella valanga di nuovi iscritti venne prosaicamente chiamata l’“ondata della merda”. Ma, come ci ricorda Bistoni, vi erano ragioni molto pratiche per mettersi in tasca la fatidica tessera.
“Il mio babbo Domenico era un capomastro e allora cominciavo a lavorare con lui. Per adire alle pubbliche licitazioni bisognava essere iscritti al Fascio. Se non eri iscritto, non potevi avere commesse di lavoro dagli enti pubblici; inutili partecipare alle gare, ai concorsi”.
Che ne pensava suo padre del fascismo?
“Era un cittadino come tanti. Non si interessava di politica. Siccome per lavorare bisognava iscriversi al Fascio, lui si iscrisse; punto e basta. Dovettero fare così tutti gli artigiani, se volevano campare. Anche quelli di sinistra come Giuseppe e Amerigo Antoniucci, Luigi Crocioni, Edoardo Chiurchi e Domenico Marinelli. Comunque si sapeva che quelli non erano fascisti”.
Lei ha mai partecipato a riunioni di partito?
“No. I giovani dovevano andare all’Opera Balilla. Noi adulti non si aveva obblighi di adunate o di riunioni. Era il direttorio del Fascio che si radunava e prendeva le decisioni”.
Ho letto in una cronaca de “La Nazione” degli anni Trenta che in occasione del plebiscito i castellani furono portati a votare inquadrati.
“Nooo! Ma chi l’ha scritto… Quello ha raccontato le novelle!”
Lei conobbe tutti i podestà che si succedettero negli anni Trenta. Come ricorda Antonio de Cesare?
“Un personaggio di cultura, autorevole, quotato a Roma, un bravo oratore. E battagliero. Si dette molto da fare. Fu lui a tentare di riportare a Castello lo Sposalizio della Vergine di Raffaello. Ma poi purtroppo si ammalò”.
A De Cesare successe Enrico Ruggieri.
“Un funzionario molto competente, capace”.
Dopo di lui, prima della guerra, venne nominato Baldassarre Rondinelli Vitelli.
“E già. Era il periodo della nobiltà… Lui era un gaudente. Non ha lasciato una grande impronta come podestà. Beh,… si interessava della pubblica amministrazione, … ma non era uno di quelli che, da quanto lavorano, ci dormono nell’ufficio del sindaco… Poi stava poco a Castello…”
Infine, e siamo agli anni della seconda guerra mondiale, fu la volta di un tifernate doc, di Amedeo Corsi.
“Una persona benvoluta, un pacifico. Si dava da fare, ma a quell’epoca non avvenivano grandi cose in comune”.
Lei è stato sempre vicino all’ambiente cattolico. Che atteggiamento aveva la Chiesa verso il fascismo?
“I rapporti erano un po’ freddi. Lei capisce… il clima di allora: bisognava piegarsi a fare certe cose. Come si dice: o mangi questa minestra o salti dalla finestra. Bisognava convivere con il regime. E poi ci si sopportava per il bene dell’Italia”.
E Venanzio Gabriotti?
“Lo conoscevo bene, ci parlavo ogni tanto. A lui le battute contro il fascismo venivano spontanee. Magari velate, perché non era uno di quelli accaniti”.
Lei era favorevole alla guerra d’Africa?
“Sì, perché si andava a civilizzare quella gente lì. Hanno un buon ricordo degli italiani laggiù”.
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, Bistoni prese a girovagare per l’Italia come caporal maggiore autista. Gli chiedo dove si trovasse l’8 settembre 1943.
“Ero a Roma. Ho visto tanti romani gettare giù nei gabinetti i distintivi fascisti. Li toglievano, ci sputavano sopra e li buttavano nel cesso. Mi fece un certo senso”.
Lei come reagì alla crisi del fascismo nell’estate del 1943?
“Mah, Mussolini aveva fatto anche cose positive; è stato fatto del bene anche nel periodo fascista. Ma poi a Mussolini prese la bramosia del potere, di voler salire sempre più in alto. A un certo punto c’erano tante cose gonfiate dal regime. E poi l’asservimento a Hitler… Ma che ti metti a fare insieme a un megalomane come lui!”
Ma il culto della personalità di Mussolini non fu cosa da poco; non ebbe l’impressione che fosse un po’ megalomane anche lui?
“Eh, un pochino sì. Quando uno va al potere e vuole emergere, esce un po’ dai gangheri e allora fa quello che non farebbe se fosse una persona normale”.
Cosa le successe dopo l’armistizio?
“Sono andato a finire a Bari, con le truppe italiane al seguito della monarchia e di Badoglio. Ero con la Divisione Folgore. Rimasi così male, a Termoli, quando vidi i bauli sabaudi sul piroscafo in partenza per Bari, con la regina su una poltrona come un passeggero qualsiasi e il re seduto su un baule sulla tolda della nave. Li ho visti con i miei occhi, perché andavo giù a Bari con loro. Rimasi male per quella scena, per il loro avvilimento”.
Bistoni tornò in città a Liberazione avvenuta. Gli chiedo se, trovandosi nell’Alta Valle del Tevere nella condizione di dover scegliere tra regime e partigiani, si sarebbe dato alla macchia. La sua risposta rispecchia l’atteggiamento guardingo tenuto da una parte cospicua della popolazione.
“No, non sarei andato con i partigiani. Arrivato a quel punto, sarei rimasto tranquillo e silenzioso, tanto per vedere come andava a finire. Chi ha famiglia non va a cercare complicazioni”.

Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini il 30 novembre 2004 e pubblicata quasi integralmente ne “L’altrapagina” del dicembre 2004. Testo coperto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.