Mentre incombevano le elezioni amministrative di ottobre. Gabriotti coordinò i convegni mandamentali del P.P.I. di Gubbio, Umbertide e Montefalco. La scelta del rifiuto di ogni alleanza, sostenuta dalla direzione nazionale, scontentò anche a Città di Castello la destra del partito, propensa a confermare l’esperienza dei blocchi unitari con i liberali.
Sull’altro versante, i socialisti ricorsero a proclami rivoluzionari: “Faremo del Comune un’arma per volgerla contro la potestà dello Stato”.
Il vescovo Liviero intervenne con una preoccupata lettera pastorale prima che la campagna elettorale entrasse nel vivo. Preoccupato per il degrado morale della popolazione, espresse l’intenzione di tenere le attività caritatevoli ed educative al riparo delle diatribe politiche. Proprio per rafforzare questo messaggio e rimuovere dannosi pregiudizi, dichiarò che da quel momento non avrebbe più assunto la responsabilità di quanto pubblicato in “Voce di Popolo”, fatta eccezione per le comunicazioni di natura strettamente religiosa. Ciò non significava disinteresse per le sorti del partito popolare. Liviero si rendeva conto che il movimento politico cattolico aveva acquistato sufficiente autorevolezza per marciare senza palesi e spesso imbarazzanti tutele ecclesiastiche. Offrivano ampie garanzie di tenacia e fedeltà alla Chiesa i suoi uomini più rappresentativi, dai sacerdoti Enrico Giovagnoli e Giovan Battista Battilani, ai laici Matteo Biagini e Venanzio Gabriotti. Proprio il “capitano” divenne la bandiera del P.P.I., che lo presentò candidato sia al consiglio provinciale che a quello comunale.
La consapevolezza di un inevitabile successo elettorale socialista e la difficoltà di trovare personalità disposte ad esporsi in prima persona indussero i “popolari” a scendere in campo con una lista di minoranza. Il partito fece appello ai piccoli proprietari, presentandone in lista ben 6 su un totale di 14 candidati, e alle frange contadine ancora diffidenti dei socialisti. Quindi rammentò ai cattolici il dovere di recarsi alle urne per la conservazione “delle poche libertà cristiane” ancora sopravvissute.
La campagna elettorale trascorse in una calma quasi assoluta. La sera stessa di domenica 17 ottobre, prima ancora della conclusione dello spoglio delle schede, i socialisti in segno di giubilo issarono la bandiera rossa sul palazzo comunale e fecero suonare il campanone municipale.
I “popolari” si dichiararono moderatamente soddisfatti: avevano avuto modo di misurare la propria forza contro un avversario agguerrito, rifuggendo da ambigue alleanze con i conservatori. Spettava ora a Gabriotti, votato da 1.053 elettori, assumere la guida della minoranza consigliare e attirare sul P.P.I. i consensi dei numerosi cattolici che, anche per pavidità, si erano rifugiati nell’astensionismo.
L’estratto è una breve sintesi, senza note, del testo in Venanzio Gabriotti e il suo tempo (Petruzzi Editore, 1993).