Per stimolare le tabacchine a costituire la Commissione Interna, la Camera del Lavoro rese noti i positivi risultati delle elezioni per le rappresentanze sindacali all’interno dello Stabilimento Nardi.
Case costruite dalla ECOFAT per gli operai dello stabilimento; cerimonia della posa della prima pietra (21 ottobre 1956).
Azienda e sindacato: nuovi equilibri
Mentre si acuiva lo scontro politico e sociale, la sinistra prese a identificare nel nuovo direttore Silvio Donadoni l’esecutore della linea antisindacale e restauratrice della Fattoria. Anche se l’episodio del licenziamento dei cinque dipendenti avvenne quando egli figurava ancora come vice-direttore ed ebbe l’assenso di Dino Garinei, è evidente che Donadoni divenne da allora la figura centrale dell’azienda; gli amministratori riponevano in lui “la più completa fiducia” per le capacità tecniche e dirigenziali e per l’attaccamento alla Fattoria. Per raggiungere il miglior livello di produttività, efficienza e disciplina, Donadoni non avrebbe fatto solo ricorso all’arma del rigore e a prove di forza; fu, la sua, una gestione caratterizzata da un marcato paternalismo, che seppe allentare le tensioni e talvolta suscitare persino consenso tra i dipendenti per le concessioni e le gratificazioni di cui beneficiò soprattutto il personale più meritevole. Donadoni avrebbe poi schiettamente sintetizzato con tali parole il suo indirizzo dirigenziale: “Il fatto di poter riassumere il personale alla fine dell’estate secondo i criteri che mi sembravano più opportuni, costituiva certamente per me un’arma molto efficace. Ma l’ho utilizzata adottando dei criteri molto generali; ad esempio penalizzavo, riassumendoli in ritardo, coloro che facevano troppe assenze ingiustificate e che rendevano poco. Il mio era un criterio di merito applicato senza favoritismi. Quelli che facevano attività sindacale non li disturbavo purché lavorassero sodo come tutti. Io del resto davo il buon esempio. Quando le maestranze entravano al lavoro la mattina io ero lì a presenziare, poi mi trattenevo anche 12 ore in ufficio o nello stabilimento. Probabilmente incutevo paura sui miei dipendenti, ma paura per paura, pensavo, meglio che abbiano loro paura di me che io di loro. Il mio obiettivo era salvare l’azienda e questo costituiva anche il loro interesse”.
Rigettata un’ulteriore richiesta di elezione di una nuova Commissione Interna delle maestranze e, nel contempo, ribadito il “rispetto più assoluto dei contratti nazionali di lavoro”, la Fattoria si proiettò negli anni ’50 con una poderosa struttura produttiva che – a dire degli amministratori – riusciva a ottenere dalle maestranze “il migliore e più alto rendimento” in virtù della loro dedizione all’azienda. Il futuro della lavorazione del tabacco presentava luci e ombre. Da un lato cresceva considerevolmente la produzione, con un sempre più significativo sbocco verso l’esportazione; dall’altro si imponeva un ulteriore ridimensionamento del Kentucky, sempre meno rispondente al gusto dei fumatori, e soprattutto l’elevamento della qualità del Bright, proprio per soddisfare le esigenze dei mercati esteri. La trasformazione da Kentucky a Bright richiedeva spese elevate per l’adeguamento dei locali di cura e per l’irrigazione, essenziale per garantire l’auspicata qualità. La Fattoria ebbe il merito di fornire ai soci la guida strategica, l’assistenza tecnica e il sostegno finanziario di cui abbisognavano. Nel 1952 la superficie coltivata a Bright era arrivata a 1.144 ettari; quella a Kentucky sopravviveva in 196 ettari. In quell’anno si lavorarono in magazzino 22.574 quintali di Bright del 1951 e 3.893 quintali di Kentucky. Si calcolava che la Fattoria producesse da sola un terzo del Bright italiano.