Nel 1888 il sindaco inviò al ministero i dati sulla tessitura casalinga; li definì “non lontani forse dal vero”, perché non poteva “garantirne la precisione assoluta”. Allora si calcolavano in 1.240 i telai per tessitura diffusi fra la popolazione del comune, specie nelle campagne. Da un punto di vista statistico li si suddivideva in 40 per lana, 80 per cotone, 500 per lino e canapa, 590 per materie miste e 30 per passamani; però le specializzazioni non venivano considerate rigide, perché – si spiegava – “accade non di rado che un telaio il quale lavora ordinariamente in lana sia impiegato qualche volta per tessere in lino e canapa e similmente che i telai per lino e canapa tessano pure cotone e materie miste”5. Il territorio tifernate contava in assoluto il maggior numero di telai fra i comuni dell’Umbria, rispondendo per quasi il 10% del totale. Per quanto riguarda la produzione di stoffe, con 170.000 metri annuali, era secondo solo a Perugia.
La tessitura casalinga non aveva fini commerciali e rispondeva soprattutto ai bisogni di famiglie contadine abituate a produrre da sé il necessario per l’abbigliamento e per l’uso domestico. Il rallentamento dei lavori agricoli nel periodo invernale favoriva questa occupazione tipicamente femminile. I tessuti erano per lo più di materie miste. Di puro lino non si faceva quasi nulla: la fibra corta e delicata creava seri problemi di tessitura. Anche la sola canapa, per la rigidezza, veniva poco usata. Si doveva quindi mescolare le fibre. In genere di lino e cotone erano soprattutto tovaglie, asciugamani e lenzuoli; di lana e cotone (il “mezzolano”), vestiario e sottocoperte. Con la lana nera si confezionavano vestiti, con quella bianca gli indumenti intimi; ma i due tipi spesso venivano miscelati. Quanto al cotone, lo si acquistava, già tinto, per le camicie.
La relazione illustrativa dei dati del 1888 chiarisce ulteriori aspetti: “La lana viene ricavata dalla tosatura delle pecore che si allevano nei comuni stessi di lavorazione. Il lino e la canapa provengono per la massima parte dalla coltura che le famiglie campagnuole usano fare per proprio conto, e pel rimanente si ritirano dalla Romagna. Il cotone viene acquistato, di solito già tinto, nei centri più grandi di commercio e specialmente a Perugia e ad Ancona. L’imbianchimento si opera quasi sempre coi sistemi primitivi e non tutti tingono le stoffe confezionate, che anzi tali stoffe vengono mandate per tale operazione alle più vicine tintorie, quando non siano adoperate greggie, cioè senza apparecchio o stampa di sorta”.
I Giornali di Stato Patrimoniale compilati dal conte Florido Pierleoni tra il 1851 e il 1879 offrono interessanti informazioni sulla produzione di materie prime per la tessitura nella sua azienda agraria. […].
Pierleoni annotò minuziosamente le spese per la tessitura di panno ordinario, da tavola, da lenzuoli e da coperte; inoltre di tela per biancheria da tavola, per salviette e per “sciugatori fini”. […].
I registri di amministrazione degli enti ecclesiastici registri forniscono numerosi dettagli sui costi della tessitura. […].
Il censimento fiscale dei primi anni ’50 mise a nudo i limiti dell’attività di tessitura locale: “Alcune donne in separate abitazioni si esercitano a tessere o per private famiglie, o per qualche merciaio: ma questo traffico è di poco utile perché la Romagna, la Marca e la Toscana forniscono tessuti in cottone, in lino, e in canapa a minor prezzo per l’uso delle macchine, che qui mancano”. […]
Dieci anni dopo, in risposta a un questionario militare, il sindaco ricordò che in città operavano “tre lanifici ove si fabbricano panni di buona qualità e due istituti femminili la cui principale occupazione si è il tessere”, ma fece presente l’esistenza di “molte altre tessiture isolate”. Se il panno per le uniformi dei soldati poteva essere fabbricato negli opifici, scrisse il sindaco, “la tela per le camicie può somministrarsi in diversa quantità dagli orfanotrofi e dalle piccole manifatture private. Esistono molti operai di ambedue i sessi e molte orfane che disimpegnano la commissione di lavoro loro affidato”.
Gli estratti dal volume Artigianato e industria a Città di Castello tra ‘800 e ‘900 mancano delle note