Lo chiamavano “Araf” da quando era bambino; un soprannome nato come tanti altri tra i vicoli del rione tifernate della Mattonata, dove viveva. E si firmava “Araf” nei suoi quadri. Ma con “Araf” – il noto pittore Alfredo Baldelli (1922-2015) – non abbiamo parlato di arte, bensì dell’esperienza vissuta 70 anni fa come partigiano. Ricordi vividi di un novantaduenne che in quel 1943-1944 fu tra i giovani ad andare alla macchia.
L’armistizio lo colse che era aviere scelto a Roma: “Una mattina sono giunti i tedeschi, con il fucile mitragliatore, e hanno cominciato a caricarci sui camion per portarci via. Io e altri tre amici siamo riusciti a fuggire, verso la campagna. Ma loro ci hanno inseguito, sparando. Ci siamo messi a strisciare lungo i solchi di grano, fino a che siamo arrivati alla casa di un contadino. Ci ha salvato lui, nascondendoci dentro un pozzo asciutto, che non usava più. C’erano delle scale di ferro per scendere. Ci ha nascosto lì dentro e ha chiuso il pozzo con un coperchio di legno”.
La scelta di andare alla macchia “Araf” l’ha fatta più in là, quando non era più possibile barcamenarsi e le scadenze dei bandi per l’arruolamento nei corpi fascisti o al servizio obbligatorio di lavoro costringevano a scegliere da che parte stare. Per lui, figlio di un socialista che “ne aveva buscate” dai fascisti, non ci furono tanti dubbi: “Una mattina in piazza incontro Livio Dalla Ragione, con il quale ero amico da vecchia data. Lui mi fa: ‘Araf, andiamo alla macchia?’ Io dissi subito di si. E lui: ‘Allora, quando vieni su, passa da Dario Raichi, che ti da uno zaino con le bombe a mano’. Così una sera, poco prima di mezzanotte, sono partito per Montebello insieme ad altri due. Ricordo che cominciava ad essere primavera. Arrivammo il giorno dopo, camminando tutta la notte”.
Montebello, nel Pietralunghese, era il covo della banda di partigiani tifernati della Brigata Proletaria d’Urto San Faustino. Lì “Araf” trovò Livio Dalla Ragione, Mimmo e Gastone Gambuli, Piero e Amato Martinelli, Pasqualino Pannacci e altri. Giovani fuggiaschi di fatto adottati dalla gente del posto. Araf ricorda ancora con gratitudine quei contadini: “Senza di loro sarebbe stato un disastro. Ci hanno protetto, ci hanno dato da mangiare. E di mangiare ce c’era così poco. Eravamo tutti magrissimi”.
Anche per questo diverse azioni partigiane miravano a prelevare dai possidenti di campagna il necessario per sopravvivere: “Una volta Livio mi disse: ‘Vai giù al podere del Sasso a prendere un vitello. Siamo andati in tre, abbiamo preso il vitello e abbiamo lasciato una ricevuta con su scritto che la bestia sarebbe stata pagata dopo la guerra. Mi chiedi se era arrabbiato il proprietario? Beh, contento non era di sicuro. E sinceramente non so come è andata a finire col pagamento…”
Su alla macchia si formò un gruppo unito: “Si era tutti amici e amici siamo rimasti. Di politica si parlava poco, anche perché andavamo di continuo chi di qua, chi di là. Avevamo idee diverse. Io ero d’estrazione socialista, molti erano comunisti e qualcuno era democristiano”.
Mancava del tutto l’astio verso quei coetanei che, non per fanatismo politico, ma per necessità, si erano arruolati nella Milizia fascista, la cosiddetta “Bilinciana”: “Molti hanno fatto quella scelta per paura o per convenienza. Avevo tanti amici nella Bilinciana. Arruolandosi nella Milizia avevano la certezza di restare a Castello e di non essere portati via”.
Durante il rastrellamento nazi-fascista del maggio 1944, la sorte dei giovani partigiani del Pietralunghese parve segnata. “Araf” ricorda un episodio: “Eravamo al Perrubbio, si dormiva in un capanno e si teneva in una cassetta le bombe a mano. Una mattina ci attaccano i tedeschi. Ero su una cimettina con Livio Dalla Ragione, che aveva il mitragliatore e sparava verso i tedeschi. Io avevo un Parabellum americano, ma senza munizioni. Si sentiva passare sopra le nostre teste i proiettili dei tedeschi. Mi raccomando a lui: ‘Livio, gimo via, che que ci amàzon tutti!’ Lì per lì lui voleva restare: aveva un carattere coraggioso, temerario, non voleva mai ritirarsi. Però dopo mi ha dato retta. A quel punto i tedeschi sono saliti su, sono entrati dentro il capanno e hanno appiccato il fuoco alla paglia per bruciarlo. Non sapevano che ci avevo nascosto le bombe a mano. Quando hanno cominciato a esplodere, abbiam visto i tedeschi fuggire chi da una parte chi dall’altra”.
La sorte di chi stava alla macchia poteva essere decisa da eventi fortuiti. Ecco cosa capitò ad “Araf”: “Una mattina ero andato di pattuglia con Gazzaniga, un milanese. Livio mi fa: ‘Tocca andare giù al mulino di Montemaggiore, a prendere un sacco di farina’. Gli rispondo: ‘Va bene, ci andrò io…’ Ma a quel punto interviene Giuseppe Baccinelli e dice: ‘No, no, ci vado io, tu sei stanco, sei ritornato adesso’. Così è partito lui al posto mio. Dopo un po’ sento dei colpi d’arma da fuoco. Erano arrivati i tedeschi e l’hanno ammazzato”. Giuseppe Bacinelli, tifernate di 21 anni, morì il 5 luglio 1944 nella zona del Perrubbio.
Altro ricordo indelebile è la battaglia di Pietralunga, combattuta il 10 luglio a fianco degli inglesi: “Noi eravamo sulla pineta di Candeleto. I tedeschi erano dietro a Pietralunga, al cimitero, e bombardavano a tutto spiano contro di noi con i loro mortai. A un certo punto i tedeschi sono scesi giù per attaccarci. Noi non ci si aveva le armi per poterci difendere, solo i mitra che ci avevano paracadutato gli inglesi. Lì me la sono vista brutta. Noialtri eravamo sparsi dappertutto, chi qua e chi là. Io ero steso dentro un solco di grano e cercavo di allontanarmi il più possibile strisciando. A un certo punto ho fatto un balzo e mi sono gettato due solchi più avanti. Appena in tempo: dopo poco una bomba è caduta proprio dove era prima!”
Quel giorno, a Pietralunga, le posizioni tenute dai partigiani erano indifendibili, così decisero di ritirarsi verso Carpini. Lo fecero insieme agli inglesi, anche loro convinti che non c’era niente da fare. Pure in quella circostanza l’ultimo ad arrendersi all’evidenza fu Livio Dalla Ragione: “Mi ricordo che ci fu una discussione tra Livio, che era comandante, e Mimmo Gambuli, suo vice. Mimmo, più riflessivo, diceva: ‘Guarda che qui si muore tutti!’ Livio invece voleva tornare su a combattere”.
In quei giorni morì un giovane partigiano polacco che si era aggregato al gruppo tifernate: Enrico, detto “il Polacchino”. “Araf” l’ha impresso nella memoria: “ Era prigioniero dei tedeschi, poi è fuggito ed è venuto con noi. Quando è scappato, ha dormito in un capanno con me. Aveva una borsa piena di tabacco sfuso; siamo stati tutta la notte a fumare sigarette… Il Polacchino aveva in una gamba una buca così… una ferita grossa… Era piccolino, magro, un ragazzino; sembrava che avesse meno di 18 anni. Simpatico, estroverso, parlava un po’ d’italiano e ci si intendeva bene. È morto durante la battaglia di Pietralunga”. Al “Polacchino” è intitolata una delle principali via della periferia di Città di Castello.
Dopo la battaglia di Pietralunga, i partigiani della “San Faustino” scesero a Umbertide, già liberata dagli Alleati: “Lì ci hanno disarmati tutti. Non c’è stato niente da fare, hanno preteso che si consegnasse tutte le armi. Poi ci hanno caricato su dei camion e ci hanno portato dietro le linee, a Casalina di Deruta, all’interno di una grande fattoria”.
Finì lì il contributo di “Araf” alla Resistenza contro il nazi-fascismo. Molti altri suoi compagni di macchia sarebbero ripartiti all’inizio del 1945, volontari nel Gruppo di Combattimento Cremona, per completare il lavoro: liberare anche il nord-Italia, ancora in mano tedesca. Ma “Araf” proprio non poté: “Quando Livio mi chiese se partivo, gli dissi che lì a dieci giorni mi sposavo e che il prete la domenica aveva già annunciato due volte in chiesa che mi sposavo, come allora usava. Non potevo mica dire al prete che rinunciavo al matrimonio per andare in guerra un’altra volta…!”
Testimonianza raccolta da Alvaro Tacchini l’8 gennaio 2014 di pubblicato ne “L’altrapagina” di aprile 2014. Testo protetto da copyright; non riprodurre senza citare la fonte.
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