Il timore che lo scontro a fuoco di Montone e la crescente pressione del movimento partigiano potessero provocare una dura reazione tedesca ebbe una drammatica conferma lunedì 8 maggio, in tutto il territorio tra Città di Castello e Umbertide. Era l’inizio di una vasta operazione militare che avrebbe interessato anche l’Appennino umbro-marchigiano a oriente del Tevere, fino a Pietralunga e Apecchio.
Sin dal primo mattino di quel giorno reparti tedeschi e militi fascisti rastrellarono il centro urbano tifernate e le limitrofe zone rurali. Non si trattò semplicemente di un’azione repressiva tesa alla cattura di oppositori, di renitenti alla leva, di militari sbandati o comunque di persone sospette. L’obbiettivo era pure di catturare giovani uomini in buona salute da inviare al lavoro coatto in Germania. Lo fecero senza alcun scrupolo, infischiandosene dei permessi ufficiali che autorizzavano alcuni a svolgere regolari mansioni di lavoro e dei certificati di convalescenza che permettevano a dei militari di restare tranquillamente in città. Prelevarono e rapirono alle loro famiglie anche giovani poco più che adolescenti.
Il centro di raccolta dei rastrellati fu la stazione dei carabinieri, dove era detenuto Gabriotti. Sono 25 di Città di Castello e 19 di Umbertide e di Montone i giovani civili finora identificati che subirono allora la deportazione in Germania. Ad essi sono da aggiungere i militari sbandati rastrellati nelle campagne. Diventarono gli “schiavi di Hitler”. Ben 28 dei civili avevano un’età dai 17 ai 19 anni. Cinque di essi morirono di stenti nei lager.
Quel giorno, in un’operazione anti-partigiana, fu arrestato nella frazione di Ronti anche don Gino Tanzi, accusato di tenere in parrocchia una radio ricetrasmittente. Quando lo condussero nella caserma dei carabinieri di Città di Castello, Gabriotti lo scorse dalla sua cella e mormorò a Nardi: “Hanno arrestato anche don Gino, è la fine!”. Il sacerdote fu trasferito a Perugia e rischiò la fucilazione o la deportazione.
I tedeschi avevano ormai il pieno controllo della situazione a Città di Castello. Il comando di presidio della GNR li informò che Venanzio Gabriotti era stato incarcerato per connivenza con i partigiani. Alle 11 del mattino dell’8 maggio due loro ufficiali lo sottoposero a interrogatorio.
Nardi lo vide tornare in cella turbato. Aveva confermato quanto ammesso a Brighigna, cioè la consegna di una lettera al comandante partigiano Stelio Pierangeli. Ai tedeschi non interessava affatto il contenuto della lettera: consideravano sufficiente per una condanna a morte senza alcuna formalità il semplice incontro con Pierangeli e la sua mancata denuncia al loro comando. Tacitarono seccamente ogni tentativo di Gabriotti di giustificare le sue azioni. Gli parve addirittura che nutrissero un pregiudizio negativo nei suoi confronti in quanto cattolico, per l’ostilità che – a loro dire – la Chiesa nutriva verso la Germania.
Per quanto consapevole della gravità delle circostanze, Gabriotti recuperò la serenità. Ponderando tranquillamente il da farsi con Nardi, disse: “D’altra parte, per una Idea si può anche morire; anzi è la morte più bella. Mi rincresce solo che la mia opera venga stroncata troppo presto”.
Probabilmente – considerato il riferimento ai tedeschi – fu dopo l’interrogatorio del mattino che Gabriotti riuscì a inviare fuori dalla caserma un altro dei suoi biglietti: “Sono in mano dei tedeschi che fanno una grande questione per le 13 tessere trovate in ufficio. Informare le suore portando loro l’elenco per i controlli. Esse le hanno ricevute tutte ad eccezione di quelle 13 restate per errore in ufficio. Avvertitele perché non si sgomentino, che è cosa da nulla. Non si impressionino […]. Ricordarsi di avvertire le note persone per confermare ove fui e che non ero accompagnato. Vogliono sapere dall’avv. Pierangeli come fece a far sapere al figlio che si incontrasse con me per la consegna della sua lettera di richiamo. Dal cassetto centrale dell’ufficio portare via tutte le carte”.
Le tessere in questione erano quelle annonarie, usate per il razionamento dei generi alimentari. I collaboratori di Gabriotti sapevano che ne utilizzava alcune degli istituti religiosi per raccogliere beni di prima necessità da inviare ai partigiani.
Il pomeriggio, verso le 17.30, entrò nella cella il comandante del reparto di SS, il sotto-tenente Hans Tatoni. Lo accompagnava il vice-comandante del presidio della GNR, il sotto-tenente Biagio Giombini. Altoatesino, Tatoni parlava molto bene l’italiano. Ce ne ha lasciato un breve ritratto don Antonio Minciotti, che ebbe modo di vederlo in caserma: poco più che ventenne, di bassa statura, con capelli che gli ricadevano scompostamente sulle orecchie, teneva il mitra a tracolla e impugnava la pistola, vomitando “bestemmie contro Dio e contro i preti, che l’avevano tradito e facevano la guerra al Terzo Reich”.
Dopo aver avuto conferma da Gabriotti che era stato lui a consegnare una lettera a un “ribelle”, gli chiese: “Lei sapeva che il destinatario della lettera era un partigiano?”. Al suo “sì” non volle sentire altre ragioni e chiuse la conversazione: “Domattina alle 5 la faremo fucilare in piazza!”. Poi se ne andò bruscamente.
Rievocò Nardi: “Ci guardammo in faccia, gli occhi negli occhi; mi mordevo le labbra, per vincere la commozione che mi aveva pervaso. Venanzio, più forte di me, e con una voce assolutamente calma, che mi è rimasta nelle orecchie come una delle impressioni più vibranti di quelle tremende ore, si limitò a dire: ‘Vede, non lasciano parlare’”.
E quando Nardi si lasciò andare a parole di vendetta contro i fascisti, causa di tutto quel dramma, Gabriotti gli ribatté “con veemenza insolita”: “No, amico carissimo, fareste un insulto alla mia memoria. Tutti i miei concittadini sanno che la mia azione politica ha avuto sempre un carattere spiccatamente moderatore. Il ricordo di quanto da me fatto in occasione del 25 luglio 1943 non dovrebbe essere svanito. Nel mondo di domani dovrà regnare la giustizia e la fraternità, non lo spirito di rappresaglia e di vendetta”.
Fu a quel punto che rientrò in cella Tatoni, da solo, chiedendo a Gabriotti un documento di identità. Il tifernate cercò inutilmente di cogliere l’occasione per spiegarsi. Addirittura, quando si interpose tra la porta e lo stipite per costringere l’ufficiale tedesco ad ascoltarlo, questi non esitò a estrarre la pistola dalla fondina.
Le testimonianze raccolte durante il processo e nella sua istruttoria gettano luce su quanto stava avvenendo fuori della cella. L’intento dei tedeschi di fucilare Gabriotti suscitò turbamento in diversi fascisti di Città di Castello. Il milite Carlo Gentili affermò: “So che il Brighigna in ultimo certamente, temendo che la fucilazione di Gabriotti avrebbe creato l’irreparabile per lui, si adoperò perché i tedeschi non lo fucilassero e lo portassero in Germania e anzi mi disse di avere ottenuto ciò. A questo lo persuasi io, che sempre gli facevo riflettere che essendo egli di Castello si sarebbe attirato l’odio per sé e per la famiglia e tutta la cittadinanza non gli avrebbe mai perdonato la morte del Gabriotti”.
Il comportamento di Brighigna lo confermarono un altro milite tifernate, il sergente Remo Cancellieri, e il maresciallo dei carabinieri Emo Fiaschi, che così testimoniò: “[…] quando si seppe che le SS tedesche avevano intenzione di fucilarlo, lo stesso Brighigna mi disse in confidenza che non pensava mai si dovesse giungere a tale provvedimento, che del resto qualificava ingiusto, affermando che al più avrebbero dovuto deportare in Germania il Gabriotti”.
Il testo, che però non include le note, è tratto dal volume di Alvaro Tacchini “Gli ultimi giorni di Venanzio Gabriotti”, Istituto di Storia Politica e Sociale “V. Gabriotti”, Quaderno n. 14, 2018.
Le fotografie nel sito, se non dell’autore, provengono per lo più dalla Fototeca Tifernate On Line.
Si chiede a quanti attingeranno informazioni e documentazione di citare correttamente la fonte.