Nel 1831 il contagio rivoluzionario investì l’Italia. A febbraio, dopo l’arresto del patriota modenese Ciro Menotti, l’insurrezione divampò nelle Legazioni pontificie, si estese in tutta l’Emilia e la Romagna e raggiunse Ancona e Perugia.
Il 14 febbraio assunse il controllo di Perugia un Comitato Provvisorio di Governo, che incaricò alcuni patrioti di costituire analoghi comitati nelle altre città umbre. I commissari prescelti per estendere il sommovimento all’Alta Valle del Tevere furono Petronio Reggiani e Luigi Vibi. Già l’indomani i due inviati potevano riferire a Perugia del tranquillo passaggio di poteri avvenuto a Fratta (ora Umbertide).
In quello stesso giorno il consiglio comunale di Città di Castello ribadiva la “divozione” al papa e alla Santa Sede. Certamente covava un forte scontento, suscitato dalle “angustie” in cui si trovava la città “per difetto di commerciali risorse, e per gli smembramenti territoriali, e per l’eccessivo estimo catastale, e per tante altre sventure di combinazione politica e di locale posizione”. Tuttavia si ribadiva la fedeltà al pontefice e l’intenzione di formulare le proprie rivendicazioni senza “tumultuose innovazioni” e “in tempi opportuni”. Del resto l’elezione del nuovo papa Gregorio XVI era stata calorosamente festeggiata in città pochi giorni prima e si nutriva la speranza che il nuovo sovrano avrebbe prestato maggiore attenzione alla richiesta di Città di Castello di ritornare agli antichi privilegi e di veder ripristinati il tribunale collegiale e l’officio di conservazione delle ipoteche.
Quando Reggiani e Vibi giunsero da Fratta a Città di Castello, il 16 febbraio, non trovarono dunque l’accoglienza entusiastica che auspicavano. Gli amministratori pubblici, personalità di idee molto moderate, accolsero con freddezza la richiesta di aderire alla rivolta avviata a Perugia e di costituire anche localmente un Comitato Provvisorio di Governo. Come sarebbe emerso chiaramente in seguito, non li turbava solo la prospettiva di rompere quel legame diretto e fiduciario con la Santa Sede che reputavano essenziale per vedere accolte le istanze cittadine; nutrivano altresì una forte diffidenza nei confronti di quanto proponeva Perugia, la cui egemonia sul territorio altotiberino si riteneva aggravasse i molti mali del territorio. In quel frangente storico, pertanto, le spinte autonomistiche di Città di Castello condizionarono l’adesione di influenti personaggi locali al movimento di indipendenza nazionale.
Il consiglio comunale si riunì il 17 febbraio per decidere sul da farsi. All’unanimità deliberò che la cessazione della sovranità pontificia su Perugia scioglieva Città di Castello “da ogni dipendenza dal Capoluogo”, dal momento che tale “dipendenza” era stata sancita proprio dal governo pontificio. Quindi il Comitato perugino poteva esercitare la propria autorità solo sul suo territorio; Città di Castello avrebbe provveduto autonomamente “alla propria tranquillità e sicurezza”. Quanto al cambiamento della forma di governo, gli amministratori tifernati affermarono che per un atto così rilevante sarebbe stato opportuno “consultare il voto pubblico, o almeno della maggioranza degli abitanti”; in caso contrario si correva il rischio, come successo alla fine del secolo precedente, delle “più lagrimevoli sciagure, non disgiunte da molta effusione di sangue”.
Nello stesso giorno in cui una notificazione del Comitato di Perugia rendeva pubblico che anche Spoleto e i paesi vicini avevano “in mezzo ad un generale commovimento di gioja inalberata la Bandiera Tricolore, e proclamata solennemente la loro riunione dalla gran causa dell’Indipendenza, e Rigenerazione Italiana”, le autorità tifernati prendevano tempo e reclamavano autonomia operativa, deludendo le attese dei commissari Reggiani e Vibi.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).