Per meglio raccordarsi con il Comitato di Perugia, i tifernati vi delegarono in rappresentanza Vincenzo Gualterotti, che ebbe l’esplicito mandato di tutelare con molta attenzione gli interessi della città e del suo territorio e di garantire una forte autonomia al Comitato di Città di Castello. Perugia riconobbe “la ragionevolezza” di alcune rivendicazioni tifernati e fece di tutto per rimuovere le cause di attrito con Città di Castello. Gualterotti cercò il sostegno dei delegati di altre città umbre alla proposta tifernate di un’articolazione istituzionale improntata ad una maggiore autonomia dei centri periferici.
Intanto urgeva coordinare l’azione delle varie Province ribelli e fu convocato un incontro a Bologna per formare un Governo Provvisorio in grado di rispondere con prontezza a ogni emergenza politica e militare. L’assemblea di Bologna dichiarò cessato il Governo Pontificio e mise in programma elezioni generali per dare stabilità costituzionale al nuovo Stato. Il Comitato di Perugia previde da subito che uno dei deputati umbri sarebbe stato tifernate: “Città di Castello, e pel suo lustro storico, e per la ubertà del suo Territorio, e per la Civiltà, e coltura de’ suoi Cittadini fu sempre tenuta, ed è di presente in gran pregio di questa Città nostra, che ebbe quindi, ed avrà per Lei in ogni evento particolari riguardi”.
Le rassicurazioni del Comitato perugino non fecero breccia tra gli amministratori tifernati. In alcuni di essi gli eventi degli ultimi anni avevano alimentato un’ostilità verso il capoluogo che finiva col paralizzare l’azione concorde resa necessaria dall’incalzare degli avvenimenti. Si fece portavoce di tale ostilità una personalità per altro politicamente moderata, legata alla Chiesa e alle sue autorità, convinta che Città di Castello aveva da sperare più nel riformismo “illuminato” del papa che in avventure rivoluzionarie: quel Giustino Roti che, segretario della Magistratura cittadina, continuava a ricoprire il ruolo anche nel Comitato Provvisorio. Roti usò espressioni durissime contro il capoluogo: “Perugia abituata a prepotenze a danno e disdoro nostro”; Perugia che “si arroga tutti i diritti della Provincia e della Capitale”; e inoltre: “il popolo civico, e campestre non vive tranquillo sulla preponderanza de’ Perugini, i quali spiegarono in ogni tempo sopra Città di Castello ogni maniera di soperchieria, fomite di odj e di guerre”; “il nome di Perugia suona per noi prepotenza e tirannia: e contro Perugia stanno tutti i petti della Città e della Campagna infiammati anche da’ nostri Preti”.
Per la cultura e il carisma di Roti, la sua veemente polemica anti-perugina non poteva non fare proseliti. Ma se essa traeva linfa da ingiustizie e sgarbi patiti da Città di Castello in passato, e per di più per opera del cessato regime pontificio, trovava invece modesto fondamento nell’azione condotta dal Comitato di Perugia. Di ciò se ne accorse Vincenzo Gualterotti, che a Perugia condivideva le quotidiane ambasce del nucleo di patrioti alla guida dell’insurrezione. Pur continuando a sostenere le ragioni tifernati, prese a suggerire ai concittadini di avere pazienza, di cercare l’unità, di non insistere troppo su questioni marginali o particolaristiche, di non perdersi in chiacchiere, di tener conto che le altre città umbre – scrisse – “non si lagnano, e pienamente si conformano”.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).