Il Comitato perugino non era però rimasto in inerte attesa. Assunto il potere, aveva acquisito con prontezza il controllo delle forze dell’ordine. A mezzogiorno del 18 febbraio Petronio Reggiani ordinò al “pubblico trombetta” di recarsi all’ingresso del Palazzo Governativo scortato da “quattro Giandarmi armati di schioppo, bajonetta in canna e sciabole” e di leggere le notificazioni del Comitato di Perugia.
I magistrati tifernati percepirono il tutto come una “violenza” e abbandonarono il municipio, con l’intento di dimettersi in blocco. Poi, però, le pressioni dei “più onesti, e zelanti cittadini” e di autorevoli esponenti religiosi li convinsero a rimanere in carica, “al santo fine di schivare mali maggiori”. Obbiettivo comune era di salvaguardare “la conservazione dell’ordine pubblico, la tutela delle persone, e delle pubbliche e delle private sostanze”.
Il Comitato Provvisorio di Governo di Città di Castello venne dunque formato dal gonfaloniere Giuseppe Bufalini e da Vincenzo Gualterotti, Bernardo Cristiani, Marcello Becherucci, Luigi Celestini e GioBatta Signoretti.
Il commissario Reggiani si ritenne soddisfatto. Riferì a Perugia: “Non furono tolti sul momento li stemmi pontifici per non urtare ad un tratto il niente tranquillo popolo di campagna. Nella notte di ieri però furono quelli da per tutto tolti, e nella giornata fu elevato il Vessillo Nazionale. La tranquillità, e buon ordine sono assicurati. A gara s’indossano dagli abitanti della città la Coccarda Tricolore, ed accorrono in buon numero ad iscriversi alla Guardia eretta sotto il comando del signor marchese Luigi Bufalini già Guardia d’Onore”.
L’insieme della documentazione lascia intendere che tra Reggiani e il Comitato tifernate fu concordato un compromesso, in un contesto sociale nel quale il mantenimento dell’ordine pubblico restava un’incognita. Il precario equilibrio poteva infatti essere facilmente spezzato da moti anti-rivoluzionari ispirati nella vasta campagna dai sostenitori del governo pontificio: una minaccia che gravò sempre su chi ebbe incarichi pubblici in quell’epoca. Non a caso venne subito diffuso l’avviso del Comitato perugino che escludeva ogni intento di istituire la leva militare obbligatoria. Significative alcune considerazioni di Giustino Roti, segretario del Comitato tifernate: “[…] molto maggiore il numero de’ Territoriali per la più parte devoti alla S. Sede, che il numero de’ Cittadini in qualche parte bramosi di novità”; inoltre Roti sottolineò il gran peso che esercitava sulla popolazione rurale “l’influenza incredibile del Prelato numeroso e dell’ottimo Vescovo”.
L’incarico di organizzare la Guardia Nazionale venne dunque assegnato a quel Luigi Bufalini che tesseva in modo accorto e segreto la trama cospirativa a Città di Castello. Volle al suo fianco come capitani Anton Maria Graziani e Giuseppe Ricci, che gli funse da segretario. Si può presumere che la milizia diventasse punto di raccolta degli animi più ardenti.
A Bufalini si posero diversi problemi. Intanto mancavano le armi, dal momento che non bastavano le carabine e i fucili in possesso dei corpi pontifici. Quanto all’arruolamento, l’appello rivolto specialmente a possidenti, commercianti, esercenti le arti liberali e artigiani portò a inquadrare nel giro di pochi giorni una quarantina di uomini.
L’adesione del Comitato tifernate fu accolta con sollievo dai patrioti perugini.
L’articolo è un estratto, privo delle note che corredano il testo di Alvaro Tacchini nel volume: Alvaro Tacchini – Antonella Lignani, “Il Risorgimento a Città di Castello” (Petruzzi Editore, Città di Castello 2010).